Riceviamo e pubblichiamo.
La comunicazione tramite PEC della decisione di chiudere lo stabilimento Diageo di Santa Vittoria d'Alba è stato ovviamente un trauma innanzitutto per i dipendenti e le loro famiglie ma anche per tutto il territorio e ha immediatamente prodotto una forte mobilitazione per provare a far recedere la multinazionale da tale decisione. Una ampia solidarietà è intervenuta da parte delle istituzioni locali, regionali, delle forze politiche, sociali e produttive alle quali ci associamo sinceramente e totalmente e non mancheremo certo di far venire meno il nostro piccolo contributo dove e quando sarà richiesto. Certo non possiamo tacere che tra i tanti attestati di solidarietà pervenuti in questi giorni c'è anche tanta ipocrisia: non si può far finta di stupirsi per una tale decisione e poi nel quotidiano lavorare e sostenere politiche, partiti e associazioni che dei vincoli, dei lacci e lacciuoli sono assidui detrattori e sono a spiegare quanto bello e moderno sia il libero mercato. L'annunciata chiusure dello stabilimento di Santa Vittoria entra a pieno titolo in tale logica: si chiude una fabbrica non considerata più strategica e si sposta la produzione là dove si pensa possa essere più redditizia per i conti del Gruppo e dei suoi azionisti. Sia chiaro, non è che se anziché Santa Vittoria si chiude uno stabilimento a Dublino o in periferia di Helsinki o in qualche altra parte del mondo le cose siano molto diverse. In ogni caso ci saranno sempre lavoratori, famiglie e territori gettati nel dramma e considerati semplici costi da tagliare nel bene supremo del mercato.
Diageo opera nel settore alimentare, delle bevande alcoliche, settore certamente non tra i più colpiti dalla crisi, ma si sa che quando inizia a diluviare anche chi è più prossimo al riparo non perde l'occasione per trovarsi un posto ancora più al sicuro. È già avvenuto molte volte nel passato ma oggi certamente nel nostro bel Paese un vero e proprio diluvio rischia di abbattersi. Non solo nell'automotive e nel suo indotto ma in centinaia di altre situazioni, tante sono infatti le vertenze aperte al Ministero o a forte rischio di tenuta. Le cause sono plurime, in particolare dalla concorrenza dei Paesi emergenti, dal forte impulso della robotica e dell'innovazione degli ultimi lustri e dai dazi che in modo strisciane vengono imposti. Ora è del tutto evidente che non si può chiedere ai Paesi emergenti di farsi carico del surplus produttivo o di dire basta alla crescita tecnologica, così come non si può rispondere ai dazi con altri dazi, per l'Italia a forte trazione sull'export significherebbe un vero e proprio bagno di sangue. Resta la sola leva di ridurre gli orari di lavoro del 20-25% ovviamente a parità di salario. Anzi più che parlare di riduzione degli orari si tratterebbe solo di tornare a lavorare esattamente come si lavorava prima delle tante riforme pensionistiche avviate negli anni 90 del secolo scorso. Certo oggi ogni persona deve lavorare molto di più. Lavorare circa 220 giorni all'anno per 43 anni e sei mesi non è la stessa cosa di lavorare 220 giorni per 35 anni. Si creerebbe certamente un problema di costi in particolare per le aziende ad alta intensità di personale (c'è fuor di dubbio ad esempio una grande differenza sul costo del lavoro per una azienda manifatturiera rispetto ad una chimica-farmaceutica) al quale si potrebbe ovviare agendo sulla leva fiscale andando a reperire le risorse necessarie magari inserendo una specifica imposizione sulla robotica, superando la famigerata tax flax, inserendo una patrimoniale di scopo sui grandi capitali o altro ancora. Significa certo un radicale cambio di paradigma rispetto alle politiche di oggi, ma significa anche provare ad andare oltre gli importanti ma quasi sempre sterili attestati di solidarietà.
Mario Cravero
Sinistra Italiana Cuneo