Il personaggio è di quelli che si amano senza riserve o si detestano e basta, perché le mezze misure non si addicono a Dario Fabbri. Ex pupillo di Lucio Caracciolo, l’uomo che con la rivista Limes ha dato dignità alla geopolitica in Italia, poi protagonista di un “parricidio” che l’ha portato a fondare e dirigere Domino insieme a Enrico Mentana, è da qualche anno una presenza fissa dei palinsesti televisivi italiani. A cui perfino i più accesi detrattori - quelli che hanno cavalcato con entusiasmo la polemica sulla laurea mancata - devono riconoscere una capacità non comune di scrollarsi di dosso frasi di circostanza e cliché da tubo catodico.
Un saggio lo ha dato anche questa mattina a Cuneo, dove era ospite di Confindustria. Nicola Calvano, responsabile degli affari internazionali dell’associazione, lo introduce ricordando che “più della metà della popolazione mondiale andrà al voto nel 2024”. “Come se fossero elezioni vere” risponde lui. E poi via con le legnate ai luoghi comuni: l’inglese? “Nel mondo non lo parla nessuno, basta andare in Grecia per accorgersene”. L’Europa? “Non esiste, quando ne parliamo gli altri europei ci ridono dietro”. Il famoso conflitto tra l’Islam sunnita e quello sciita? “Come credere che un italiano possa avercela con un berlinese perché è luterano”. Affermazioni apodittiche, certo, ma che hanno il pregio di spargere un po’ di pensiero “laterale” là dove ci si affanna a ripetere tutti le stesse cose.
L’Occidente pensa per sineddoche, ricorda Fabbri, cioè con il vizio di credere che tutto il mondo non veda l’ora di farsi occidentale. Non è così, e le guerre vicine - Ucraina e Palestina - lo ricordano: “Ciò che più conta è che le guerre oggi lambiscono il nostro Paese. Trieste è quasi più vicina all’Ucraina che alla Sicilia in termini geografici: non è un dettaglio. Perché l’Europa non esiste, ma Trieste sì”. Come al tempo di Roma c’è stato un momento in cui si è creduto che la “globalizzazione” - intesa come egemonia americana - sarebbe durata per sempre: ma gli americani, osserva Fabbri, “non hanno più la forza per tenere le guerre lontane dal continente più importante del mondo. Che resta il continente europeo perché è l’unico continente che ancora oggi consente di dominare il mondo”. Le ultime guerre “tollerate” avvennero alla fine della guerra fredda, in ex Jugoslavia: “Servivano a estendere l’influenza americana verso l’Europa centro-orientale. Guerre di contestazione della primazia americana nel nostro continente non erano pensabili, oggi avvengono”. Vale anche per l’attacco del 7 ottobre: non solo uno dei capitoli di una vicenda che continua dal 1947, sostiene l’analista, ma “una proxy war dell’Iran”.
Nelle acque dello Yemen affonda la globalizzazione “liquida”
Qui si inseriscono gli yemeniti di Anṣār Allāh, ovvero i cosiddetti Houthi che abbiamo imparato a conoscere da pochi mesi (benché la guerra civile e l’aggressione saudita dello Yemen si protraggano, ignorate, dal 2014). Sanno che la globalizzazione americana “è fatta di acqua”, cioè di merci che viaggiano per mare. E sanno anche un’altra cosa: “Che gli unici al mondo a vivere di economia siamo noi, europei occidentali. I russi non si piegano per le sanzioni economiche e nemmeno gli iraniani, i più sanzionati al mondo, perché non vivono di economia. Neanche gli americani vivono di economia per l’economia”. A indirizzare il blocco degli stretti di Bāb el-Mandeb, il collo di bottiglia che “strozza” il mar Rosso e il canale di Suez, sarebbe dunque l’Iran, ispiratore anche degli attacchi del 7 ottobre. Un’azione clamorosa con uno scopo ben preciso, secondo Fabbri: fermare la ratifica degli accordi di Abramo da parte dell’Arabia Saudita, come il principe Mohammad bin Salman aveva annunciato ad agosto. Impedire, quindi, che Israele diventi il gendarme del Medio Oriente al posto degli Stati Uniti.
“Gli accordi di Abramo si fondano sullo strapotere militare di Israele. Questo è il senso dell’attacco del 7 ottobre e anche della sproporzione della reazione e dell’incontinenza emotiva israeliana” spiega il direttore di Domino, pronosticando la paventata invasione via terra della fascia settentrionale della Striscia di Gaza da parte dell’Idf: soltanto mostrandosi forte Israele può salvare gli accordi di Abramo. Mentre gli Houthi, al contrario, agiscono sulla nostra economia affinché l’Europa convinca Tel Aviv ad accettare la sconfitta tattica. Il fronte ucraino, a sua volta, è collegato al conflitto mediorientale da numerosi fili: “Israele è l’unico Paese russofono fuori dal mondo ex sovietico e ha profondi legami con la Russia, ma tanto i russi quanto i cinesi utilizzano la questione palestinese per attaccare l’Occidente”. Da Pechino arriva la componentistica dei droni iraniani che colpiscono le navi partendo dallo Yemen. Per questo gli Stati Uniti hanno cercato di trattare con la Cina: “Ma i cinesi pongono come condizione il riconoscimento del ‘ritorno’ di Taiwan nella Cina Popolare, dove in realtà l’isola non è mai stata, entro l’ottantesimo anniversario della rivoluzione maoista nel 2029”.
L’Artico? Non è un’alternativa a Suez. Le imprese guardano alla ferrovia
Visto che la crisi del mar Rosso potrebbe non essere una questione di breve durata, tocca ingegnarsi per trovare alternative. La rotta artica, di cui talvolta si parla, non sembra essere tale: “Non può compensare il transito del canale di Suez, per cui sono passate quasi 26mila navi di ogni tipologia nel 2023” spiega Alessandro Panaro, capo servizio Maritime & Energy di SRM Centro Studi e Ricerche. C’è anche un problema geopolitico, legato al fatto che lì le navi devono rifornirsi per forza nei porti russi e non possono fermarsi in scali intermedi.
Per Suez il 2023 è stato un anno da record in termini di passaggi (ed entrate: l’Egitto ricava 9,4 miliardi di dollari all’anno dai pedaggi). Il 12% del commercio mondiale passa di lì: se analizziamo solo i flussi di commercio dei container la percentuale sale al 30%. Per l’Italia significa un 40% di import ed export. Quel che è accaduto in questo primo scorcio di 2024 è che ben 670 portacontainer hanno deviato per il capo di Buona Speranza: un -66% di traffico. La media navi nel canale è passata dalle 68 al giorno censite dal 1 gennaio all’11 marzo 2023 alle 41 attuali. Ma la conseguenza più grave, sostiene Panaro, è rappresentata dai ritardi nelle consegne di materie prime e prodotti finiti: “La percentuale di navi in orario nel 2024 è del 50%, quando nel 2019 eravamo sul 70/80% di affidabilità”. Su una rotta da Shanghai a Rotterdam, intanto, i giorni di navigazione passano da diciotto a ventotto in media.
Se anche in questa situazione c’è chi si frega le mani - gli spagnoli, per esempio, visto che ora i traffici si orientano su Gibilterra -, per i porti italiani non sono buone notizie: la mazzata era già arrivata con la guerra in Ucraina e nell’ultimo anno ha significato un -11% di merci a livello nazionale. In compenso, i treni segnano un nuovo primato: tra Cina ed Europa sono stati 2928 nei primi due mesi del 2024. La previsione è che “il Mediterraneo manterrà la sua centralità”, ma le catene logistiche vanno ristrutturandosi: “È tornato il fenomeno del reshoring, cioè ci si chiede se si possano far tornare pezzi di filiera in Europa o in Paesi vicini”. Questa, per l’Italia, è una buona notizia, conferma Giovanni Foresti, membro della direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo: “C’è un tema di profondità delle filiere domestiche. In Italia buona parte del fatturato, il 51%, viene realizzato con valore aggiunto interno, contro ad esempio il 39% francese. Questo ci ha messo al riparo dalle difficoltà che le catene del valore globale hanno affrontato fin dal 2022”. Anche l’efficientamento dei processi produttivi e la diversificazione delle fonti energetiche ha fatto da “scudo” alle imprese, permettendo di reggere l’urto dell’impennata dei costi energetici. Ora anche i prezzi dell’energia sono rientrati: “Quelli del gas stanno quotando sotto i 30 euro per megawatt ora, che dovrebbe essere il dato medio per l’anno in corso”.