L'Italia è l’unica nazione dell'Unione Europea in cui negli ultimi 30 anni il salario medio dei lavoratori è diminuito anziché aumentare: il calo registrato è del 2,9%. È quanto emerso da un'analisi di OpenPolis sulla base dei dati Ocse pubblicata la scorsa settimana. Tempi duri, insomma, per i lavoratori italiani, soprattutto per quelli più giovani, che solo ora si affacciano in questo mondo. In questo scenario, sempre più spesso ultimamente i media, a tutti i livelli, hanno dato spazio alle voci di imprenditori che incontrano difficoltà a trovare personale per le loro attività. Tra chi se la prende con i giovani che “non hanno voglia di lavorare”, con le tradizionali invettive verso la “gioventù bruciata”, e chi invece mette nel mirino il reddito di cittadinanza, sono tante le testimonianze riportate da giornali e siti web negli ultimi mesi. Un paradosso in un’epoca, quella del Covid, in cui il posto di lavoro è diventato per ognuno di noi un patrimonio ancora più importante. Per avere un quadro completo della situazione, però, serve andare più a fondo: serve ascoltare anche la voce di chi sta dall’altra parte della barricata. La voce di quei giovani che spesso si trovano a scontrarsi con una realtà che si avvicina molto allo sfruttamento, più che ad un normale impiego.
Molti di loro chiedono di restare anonimi, ma il quadro delineato dalle testimonianze che abbiamo raccolto è chiaro: se fare impresa nell’Italia di oggi è difficile, lo è altrettanto, in troppi casi, essere un giovane lavoratore. Tante le storie che arrivano dal mondo della ristorazione, ma i racconti di esperienze “infelici” arrivano anche da altri settori.
“Ho iniziato a lavorare in un bar di Cuneo a fine settembre. - racconta Sofia, ventitreenne di Cuneo - Mi hanno proposto di iniziare con un periodo di prova in nero e ho accettato. Alla fine della prima settimana nessuno mi aveva ancora parlato di retribuzione, così ho chiesto io informazioni: visto che stavo lavorando senza alcun contratto, speravo almeno di poter ricevere il denaro settimanalmente, così ho ricevuto una paga di 7 euro l’ora, non altissima trattandosi di un impiego in nero. Qualche giorno fa, nel corso della mia terza settimana, non avevo ancora ricevuto comunicazioni su un eventuale contratto: alla mia richiesta, mi è stato risposto che siccome non ero ancora abbastanza rapida nelle mie mansioni avrei dovuto continuare a lavorare in nero. Avrei avuto un contratto solo nel momento in cui fossi diventata più veloce. Mi hanno spiegato che mandare avanti un’attività in Italia non è facile, e che quello era il loro modus operandi, che mi piacesse o meno. Così ho deciso di interrompere questa mia esperienza”.
Viene dal settore della ristorazione anche la testimonianza di una ragazza di 24 anni: “Ho lavorato per alcuni mesi in un pub come cuoca. Avevo un contratto part-time, ma facevo 50 ore a settimana, con turni anche dalle 15 alle 2 del mattino, per una paga di 700 euro al mese. Mi dicevano che i cuochi si pagano ‘a servizio, non ad ore’. Mi occupavo di tutto: ordini, scadenze, preparazione, pulizia, mandavo letteralmente avanti da sola la cucina. Inizialmente con me c’era una lavapiatti, poi se n’è andata perché il datore di lavoro la scherniva per il suo peso (aveva seri problemi di salute) e perché spesso ci insultava e bestemmiava contro di noi. Il culmine è arrivato quando una sera sono stata ripresa per aver spento la griglia per gli hamburger cinque minuti prima della chiusura, con il locale deserto, e sono stata obbligata a rimanere e a cucinare per il titolare e i suoi amici, che avevano deciso di fare festa. Non ho più retto e mi sono licenziata”.
Nello stesso settore, poi, l’esperienza di una ventiquattrenne di Chiusa Pesio, in questo caso conclusa ancor prima di iniziare: “Mi sono candidata a febbraio per un posto da cameriera in un circolo. Appena sono entrata per il colloquio il titolare, guardandomi, mi ha detto che non ero adatta a quel posto, ma avrei eventualmente potuto fare la lavapiatti, non so per quale motivo. In ogni caso il lavoro proposto era questo: l’orario era dalle 10 del mattino fino a fine servizio, quindi fino a sera, si lavorava sette giorni su sette (da lì a poco si sarebbe tornati in zona arancione, il gestore voleva approfittare del periodo di apertura). Per quanto riguarda lo stipendio, il titolare mi disse che non poteva darmi più di 400 euro al mese. Ovviamente ho rifiutato il posto”.
Quasi sconcertante l’esperienza di un diciottenne di Genola: “La scorsa estate mi sono presentato presso un ristorante-pizzeria di Genola che cercava personale: al colloquio mi è stato detto che avrei fatto una settimana di prova, io ho accettato. La settimana di prova si è poi trasformata in tre settimane, senza che mi venisse più detto nulla. Ho deciso così di chiedere spiegazioni: la loro proposta era di 500 euro al mese, con il lavoro che prevedeva turni anche da 14 ore, sette giorni su sette in quanto non c’era giorno di chiusura. Vista quella proposta ho deciso di andarmene: le tre settimane di prova non mi sono mai state pagate. In più a fine servizio, di sera, se chiedevo una pizza da asporto la dovevo pagare”.
“Che quello della ristorazione sia un mondo difficile lo si capisce fin da quando si fanno gli stage durante la scuola superiore. - racconta un ventiduenne di Cuneo - Della mia classe dell’Alberghiero solo cinque persone su venti sono rimaste a lavorare in questo settore: si va dai periodi di prova non retribuiti ai contratti di apprendistato a 600 euro al mese, lavorando però anche 50 ore a settimana. In terza superiore mi capitò di sostenere uno stage: dopo un mese di lavoro venni ‘pagato’ con un chilo di gelato. Chiaramente non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, non è così dappertutto, ma molto spesso la situazione è questa. Io ho vissuto a Londra per un anno e mezzo lavorando in questo settore, e posso dire che là il mondo dell’accoglienza è totalmente diverso: si viene sempre pagati per le ore che si fanno, mentre qui molto spesso la retribuzione è fissa, a prescindere da ore e straordinari”.
Il racconto di Martina, ventitreenne di Cuneo, punta invece l’attenzione sul settore dei negozi di abbigliamento: “Quello che voglio evidenziare è un modus operandi che molte attività di Cuneo hanno preso ad adottare soprattutto nell’ultimo anno. Cercano personale, ma propongono solamente prove gratuite, in totale assenza di qualunque tipo di contratto scritto: solitamente il candidato viene ‘provato’ per otto ore senza essere retribuito, ma in realtà questo è solo uno stratagemma utilizzato per coprire i turni, tant’è che ci sono negozi che hanno affisso in vetrina da mesi l’annuncio di ricerca personale, e in cui ogni giorno lavora ‘in prova’ una persona diversa”.
“Lavoro in un’azienda di recupero crediti, - racconta una trentenne di Mondovì - ho iniziato con il classico tirocinio di sei mesi a 600 euro al mese. L’azienda mi ha fatto presentare le dimissioni un giorno prima del mio trentesimo compleanno, in modo da poter poi attivare un apprendistato e non il contratto a tempo indeterminato. La gran parte degli apprendisti viene infatti lasciata a casa al termine dei contratti: l’azienda li rimpiazza con altri apprendisti e tirocinanti, molto più convenienti a livello economico, dando però loro responsabilità che per il loro ruolo e il loro stipendio non potrebbero e non dovrebbero avere. Il trattamento nei confronti dei dipendenti, poi, lascia a desiderare. Talvolta succede di essere richiamati dai vertici dell’azienda se usciamo dieci o quindici minuti dopo il nostro orario: il motivo è che non facciamo abbastanza straordinari, i quali ovviamente non sono pagati”.
Dal mondo dell’agricoltura, invece, la testimonianza di un ventiduenne, che chiede il totale anonimato in quanto ancora impiegato nel settore: “Due anni fa ho lavorato nella raccolta di fragole. Avrei dovuto fare una settimana di prova, pagata in nero, ma arrivati alla terza settimana nessuno mi aveva ancora parlato di contratto. In quel momento arrivò un controllo dei Carabinieri e dell’Ispettorato del Lavoro. Il giorno dopo il datore di lavoro mi disse di restare a casa, dopodiché mi presentarono da firmare un contratto datato due giorni prima del controllo. Alla fine della settimana mi avrebbero poi lasciato definitivamente a casa a causa di una multa da decine di migliaia di euro da pagare”.
Con questa serie di racconti non si vuole chiaramente criminalizzare una categoria, quella di chi fa impresa, le cui difficoltà sono indubbie, e non si vuole fare di tutta l'erba un fascio, ma solo dare un quadro completo della situazione, facendo luce sui compromessi a cui troppo spesso i giovani sono costretti a scendere pur di avere un posto di lavoro. E se qualcuno di loro, ogni tanto, decide invece di non piegarsi a certe condizioni, è sbagliato additarlo come “sfaticato”, come troppo spesso accade.
Durante la raccolta delle testimonianze per questo articolo altri giovani ci hanno contattato: i loro racconti verranno pubblicati nei prossimi giorni in una nuova “puntata” su questo stesso tema.