CUNEO - "Avevo un contratto da 160 ore al mese, arrivavo a farne anche 290"

Lavoro nero, orari massacranti, mobbing: nuovi racconti e nuove testimonianze nella la terza ed ultima tappa del nostro viaggio nel mondo del lavoro giovanile

Andrea Dalmasso 27/10/2021 17:13

Si chiude con la terza ed ultima “tappa” il nostro viaggio nel mondo del lavoro iniziato la settimana scorsa. Un viaggio visto dalla prospettiva dei giovani, quelli che talvolta vengono superficialmente bollati come “scansafatiche”, ma che spesso si devono scontrare con condizioni di lavoro difficilmente accettabili, tra orari massacranti, straordinari non pagati e contratti non rispettati (se non del tutto inesistenti). 
 
La prima testimonianza di questa nostra ultima “puntata” è quella di una ventitreenne cuneese: “Alcuni anni fa ho sostenuto una settimana di prova come aiuto cuoco in un locale di Cuneo, con orario dalle 17.30 alle 3. Mi diedero 150 euro per sette giorni, durante il servizio non potevo mangiare, solamente bere, dopo aver chiesto il permesso ai titolari. Ora svolgo lo stesso impiego in un ristorante nelle Langhe, con un contratto di apprendistato. Lavoro per 75 ore a settimana: dalle 9 alle 15.30, poi dalle 18.30 fino a chiusura, per cinque giorni a settimana. Lo stipendio è di 1.200 euro al mese, ma buona parte mi viene pagata in nero”.
 
Ancora dalla ristorazione il racconto di un’altra giovane cuneese: “Ho lavorato per tutto il 2020 in un locale di una frazione di Cuneo. Facevo la cameriera oppure la barista al bancone. Ufficialmente avevo un contratto a chiamata, in realtà le ore, ad eccezione delle prime settimane, non venivano segnate, venivo pagata quasi totalmente in nero: la paga era di 40 euro a servizio, a prescindere dalle ore. Il servizio iniziava alle 17 e durava almeno fino all’una, ma spesso alle 2 o alle 3. In tutte queste ore mi veniva concessa una sola pausa di cinque minuti: se io o gli altri dipendenti chiedevamo anche solo un caffè dovevamo pagarlo, così come dovevamo pagare nel caso in cui rompessimo un bicchiere, un piatto o una tazzina”.
 
Due anni fa ho lavorato per un mese in un bar a Cuneo. - racconta invece una ventunenne - Avevo un contratto a chiamata, lavoravo per circa 20 ore a settimana per un compenso di 500 euro al mese, ma la metà dei soldi mi veniva data fuori busta, quindi totalmente in nero. La cosa più pesante era però il trattamento nei miei confronti. Ero alla prima esperienza, ero inesperta e sicuramente facevo errori, ma ogni volta mi venivano fatti notare in malomodo, con arroganza e senso di superiorità, con continue frecciatine, in un ambiente di lavoro che era tutt’altro che sereno. Senza contare che tutto veniva dato per scontato: nessuno mi aveva insegnato i rudimenti del mestiere, spiegato le mie mansioni o formato in qualche modo. La parola ‘mobbing’ l’avrei conosciuta solo dopo, ma se ci ripenso credo che potesse definirsi tale. Una situazione che in qualche modo ho ritrovato in un secondo lavoro, in una gioielleria, e che mi ha provocato un vero senso di ansia, un disagio che a un certo punto mi impediva di fare anche le cose più semplici. Andare a lavorare era diventata una sofferenza, venivo continuamente maltrattata: io fortunatamente ho potuto permettermi di lasciare quel posto, in quanto non avevo un affitto da pagare e altre spese, ma penso a quanti non sono nella mia situazione e sono costretti ad accettare certe situazioni”.
 
Situazioni e trattamenti sgradevoli che ritornano anche nella testimonianza di un trentatreenne di Cuneo: “Ho lavorato per circa due anni in un bar a Cuneo. Inizialmente ho sostenuto un periodo di prova in nero: tre settimane, lavorando in media 11 ore al giorno, con punte di 14-15. Poi ho avuto un contratto di apprendistato, secondo il quale una volta a settimana dovevo frequentare un corso per apprendere le basi del mestiere. Non l’ho mai frequentato, ma i titolari ogni tanto mi facevano firmare un foglio che attestava la mia presenza alle lezioni. Non avevo veri orari: sapevo quando iniziavo il servizio, ma non quando lo avrei terminato, l’unica pausa ammessa era di circa dieci minuti, per mangiare ‘mini porzioni’ di avanzi dei giorni precedenti. Da contratto dovevo fare 160 ore al mese per circa 1.100 euro, ma ne facevo regolarmente di più: sono arrivato a farne 294 in un mese, per 1.500 euro. Al di là di questo, il trattamento verso noi dipendenti era aberrante: venivamo regolarmente ripresi in malomodo anche davanti ai clienti. Non esito ad utilizzare il termine ‘cattiveria’, sfociata talvolta nel mobbing verso i lavoratori che non erano più ‘graditi’ ai titolari del locale. Avevo diritto a tredicesima e quattordicesima, ma quando ho lasciato il lavoro non mi erano mai state pagate. Solo dopo essermi rivolto ai sindacati e dopo una sentenza di un giudice sono riuscito a ricevere quanto mi spettava, ma soltanto tramite un prelievo imposto dal giudice stesso sul conto dell’attività, in quanto i titolari si erano resi irreperibili”. 
 
Il nostro viaggio si chiude con la testimonianza di una ventiquattrenne. In questo caso non si parla del mondo della ristorazione: “Alcuni anni fa in un colloquio di lavoro in un salone di parrucchieri di Cuneo mi chiesero se ero fidanzata, se in futuro avrei voluto avere figli, che lavoro facessero i miei genitori. Sostenni una prova di tre giorni pagata 50 euro completamente in nero. Tempo dopo venni a sapere che in quel periodo quel salone aveva utilizzato quello stratagemma solo per ‘coprire’ le ferie di un dipendente: provarono diverse ragazze, ma alla fine non assunsero nessuno”.
 
Insomma, dietro alla narrazione dei “giovani che non hanno voglia di lavorare”, quella che negli ultimi mesi ha visto susseguirsi i racconti degli imprenditori che non riescono a trovare personale, talvolta si nascondono queste realtà. Per questo, prima di puntare il dito contro un'intera generazione, è bene cercare di andare a fondo della questione, provando a capire perchè, talvolta, qualcuno non accetta certi compromessi.
 
QUI la prima parte.
 
QUI la seconda parte.

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