È la mattina del 12 febbraio 1980, verso le 11,35, quando una ragazza raggiunge il professor Vittorio Bachelet sulla scalinata della facoltà di Scienze Politiche alla Sapienza di Roma. Lo afferra per una spalla costringendolo a voltarsi e insieme all’uomo che la accompagna gli scarica addosso otto proiettili calibro 32. Il docente universitario che aveva appena finito di tenere una lezione ai suoi studenti si accascia al suolo e muore davanti agli occhi dell’assistente, la 29enne Rosy Bindi. A firmare la condanna sono Annalaura Braghetti e Bruno Seghetti, due militanti di spicco della colonna romana delle Brigate Rosse.
Titolare di una cattedra di diritto amministrativo, Vittorio Bachelet era nato a Roma nel 1926 ed era al momento della morte vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Nel comunicato successivo all’omicidio, i brigatisti lo accusano di aver assunto “il controllo delle attività giuridiche dei singoli magistrati” assicurandone “un collegamento organico all’esecutivo”. Il giurista 53enne, ex presidente nazionale dell’Azione Cattolica ed esponente politico democristiano, pagò in realtà il suo impegno per la difesa dello Stato di diritto in un momento storico in cui l’ascesa del terrorismo giustificava la richiesta di leggi speciali presso ampi settori della società.
Nell’aula di Assise del Tribunale di Cuneo, di fronte agli studenti del Liceo delle Scienze Umane ‘Edmondo De Amicis’ e del Liceo Artistico ‘Ego Bianchi’, la figura di Bachelet è stata ricordata stamane nel corso di un incontro pubblico cui hanno preso parte il presidente del Tribunale Paolo Demarchi, il presidente della sezione penale Marcello Pisanu, il procuratore capo Onelio Dodero, il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Cuneo Claudio Massa e il professor Antonio Moschella in rappresentanza del Provveditorato agli Studi.
“Il messaggio di Bachelet, il suo invito all’autoresponsabilità, sta a significare che non dobbiamo attendere che altri risolvano i problemi che denunciamo ma che dobbiamo essere noi in prima persona a farlo” ha osservato l’avvocato Massa. Del grande magistrato cattolico sopravvive “un ideale di giustizia con compassione al quale ha sacrificato la vita, al pari di Giorgio Ambrosoli e Fulvio Croce” e soprattutto l’idea che “la giustizia non è strumento di vendetta ma di applicazione delle regole a un essere umano, a prescindere dalle colpe di cui si è macchiato”.
“Per sconfiggere fenomeni come il terrorismo, l’antisemitismo, la criminalità organizzata non servono caserme ma scuole” ha affermato il procuratore Dodero, tracciando un quadro storico di ciò che ha rappresentato in Italia la stagione degli anni di piombo: “Il terrorismo aveva seminato molto consenso fra la classe operaia e gli studenti, nelle assemblee dei licei dove non tutti erano in disaccordo con la lotta armata. Tutto cambiò il 24 gennaio 1979 con l’assassinio dell’operaio e sindacalista Guido Rossa da parte delle Br: la gente capì che si era passato il segno e ne nacque un’autentica rivoluzione civile”. Oggi, ha concluso il magistrato rivolto ai ragazzi, “avete la possibilità di essere liberi praticando le regole della democrazia” e perseguendo “una forma di eroismo che coincide con lo svolgere il proprio dovere”.