È troppo presto per dire se il peggio è passato, ma qualche spiraglio di luce in fondo al tunnel si comincia ad intravederlo. Gli ultimi mesi, nella casa circondariale di Cerialdo, hanno visto succedere davvero di tutto: l’inchiesta per sospette torture a carico di 23 agenti penitenziari, un suicidio in carcere a gennaio, uno stillicidio di violenze da parte dei detenuti e alla fine uno sciopero dei sindacati di polizia che è rientrato solo da poco. “A marzo e aprile abbiamo avuto, in alcuni pomeriggi, otto agenti in tutto il carcere” racconta Domenico Minervini, il primo direttore “a tempo pieno” dopo anni di continui cambi al vertice.
Quando l’attuale direttore ha preso servizio, nel settembre 2022, c’erano 240 reclusi: oggi sono 395. Effetto dei progressivi “sfollamenti” dalle carceri di Torino e Genova, o perfino da Milano, fuori distretto. Si parla di grossi spostamenti di persone portate a Cuneo contro la loro volontà, lontano da casa, e dunque più inclini a violare le regole. Ma c’è anche un problema più profondo, di cui il direttore ha parlato lunedì scorso ai consiglieri comunali della sesta commissione, in visita al penitenziario: “Bisogna ragionare sul fatto che l’utenza è cambiata negli ultimi due o tre anni: problemi psichici e dipendenze da sostanze sono in aumento”. I carcerati sono più poveri (“c’è tanta gente che ha meno di dieci euro sul conto e non può fare acquisti basilari, compresi i medicinali”) e più soli: “Oggi gli extracomunitari sono il 66%, una percentuale allarmante che determina problemi di gestione interna”.
Troppo pochi, troppo giovani: i problemi del personale penitenziario
La buona notizia è che dopo l’ultimo trasferimento, sabato scorso, non dovrebbero arrivarne altri a breve: intanto la capienza è passata dalla soglia “regolamentare” a quella “tollerabile”, segno che l’asticella si alzata. Lo farà ancora quando verrà ultimato il nuovo padiglione del 41 bis: i detenuti sottoposti al carcere duro passeranno da 45 a 95. Nel frattempo, si attende entro luglio l’arrivo di venti nuovi agenti sui 25 assegnati: è una boccata d’ossigeno attesa da tutti, a patto che coi trasferimenti di settembre non ci siano altre emorragie. Il Cerialdo, spiega Minervini, è stato riconosciuto come istituto di primo livello ad incarico superiore, lo stesso “grado” di Torino che di nuovi agenti ne avrà trenta.
Mancano però soprattutto i quadri intermedi (due ispettori, inviati in missione, dovrebbero arrivare lunedì) e il personale esperto: “Su 148 unità, quasi 45 hanno meno di 1,5 anni di servizio. Sono forze fresche, ma totalmente inesperte: la dura realtà operativa non è quella dei corsi. E i detenuti ci osservano e capiscono se ci sono margini di ‘conquista del territorio’”. Di qui, appunto, le tensioni di questi mesi. Cui si somma l’emergenza sanitaria: se già sono pochi i medici di famiglia, ancor meno sono i camici bianchi che decidono di dedicarsi al carcere. “Un incremento delle branche specialistiche e della telemedicina - osserva il direttore - comporterebbe meno uscite all’esterno e meno violazioni”.
Si fa presto a dire “mandateli a lavorare”: “Solo il 20% può uscire”
Nel sentire comune si fa un gran parlare di quanto i problemi carcerari, a partire dal sovraffollamento, si potrebbero risolvere mandando i detenuti a lavorare. Ed è vero, il problema è che non è la buona volontà a mancare: mancano le persone da proporre per percorsi di recupero seri, che devono essere documentati e autorizzati dal magistrato di sorveglianza. “Se prima i proponibili erano il 30%, ora sono al 20%” stima il dirigente: “C’è una scarsa tenuta nel tempo degli inserimenti a scuola e a lavoro, mentre un tempo si ragionava solo di come aumentare le attività trattamentali. C’è un calo anche nelle richieste scolastiche, sebbene vengano da noi proposte nei colloqui di ingresso”.
A inizio anno è arrivata un’altra mazzata, il taglio sulle ore degli psicologi: “È stato brusco e repentino. Abbiamo avuto un dimezzamento delle ore, con i detenuti aumentati di 100 unità”. Solo da qualche settimana sono arrivati fondi integrativi per gli psicologi e altri per i mediatori culturali, che ad oggi non ci sono. Un grosso aiuto potrebbe venire dallo sport: “Un potenziamento di attività sportive e attrezzature sarebbe utile per scaricare la tensione. Abbiamo installato attrezzature a parete nei cortili e un anno fa è stato attivato il secondo campo di calcetto, anche se dopo abbiamo avuto tre scavalcamenti: ora i rinforzi sono potenziati”. Si potrebbe pensare anche ad attività sportive con l’esterno, ma per quelle, ammette il direttore, “serve il clima giusto”. Che ancora non c’è.
La speranza ha il profumo del pane: l’esempio dei Panatè
Dove si è riusciti a inserire i detenuti in cantieri di lavoro, conferma l’assessore alle Politiche Sociali Paola Olivero, i risultati sono stati ottimi: “I cantieristi si sono dimostrati molto affidabili, anche rispetto ad alcuni disoccupati. Il problema è che devono essere seguiti e non tutti possono uscire”. C’è chi, invece di uscire, rientra. È il caso delle 13 persone - 12 assunti con contratto indeterminato e un tirocinante - che lavorano nella panetteria interna, gestita dalla cooperativa Panatè-Glievitati.
La cooperativa è nata nel 2018 a Magliano Alpi e l’anno successivo ha recuperato uno spazio dentro le mura del Cerialdo: “Un’esperienza di assoluto valore dal punto di vista umano. Le nostre paure sul frangente lavorativo sono state fugate” assicura Davide Danni, il responsabile della cooperativa. Oggi nella panetteria lavorano, insieme ai detenuti, una trentina di operai: “Persone motivate e orgogliose di essere utili alle loro famiglie”. I Panatè fanno sul serio, puntando a lavorare in carcere con un’ottica di impresa: ogni giorno vengono sfornati tremila pezzi di focaccia e pane per la ristorazione, le panetterie e i bar. L’obiettivo è arrivare presto alla grande distribuzione dei supermercati.
Tra chi armeggia con impasti e farina ci sono ex detenuti che hanno scelto di tornare nel penitenziario da uomini liberi. Il responsabile a Cuneo è Massimiliano Cirillo, 42 anni, napoletano: “Certo che avrei potuto trovare un altro lavoro all’esterno. Ma mi piaceva l’idea di far vedere a chi è qui dentro che la vita è là fuori”.