CUNEO - Foibe, il patrocinio negato fa indignare: “Cuneo ha un problema con il Giorno del Ricordo”

Anche il senatore di Fratelli d’Italia Roberto Menia interviene nella polemica con il Comune. Nessun esponente della giunta all’evento del Comitato 10 Febbraio

Andrea Cascioli 17/02/2024 13:01

“Alla sindaca potrei dire vergognati, dico invece che anche questa è una riprova di quanto sia utile che se ne continui a parlare”: non si è sottratto alla polemica il senatore di Fratelli d’Italia Roberto Menia, presentando a Cuneo, venerdì pomeriggio, il suo libro 10 febbraio. Dalle foibe all’esodo.
 
Un evento a cui il Comune ha negato il patrocinio, concesso invece da Regione e Provincia. Il motivo: “Non ha aderito ad alcuni espliciti impegni richiesti” ha spiegato l’assessore alla Cultura Cristina Clerico, menzionando in particolare l’obbligo di “assicurare la dimensione pubblica dell’iniziativa, con accesso libero o prenotazione, la sua accessibilità, e garantire la libera espressione delle opinioni”. Fratelli d’Italia aveva risposto per le rime tramite il coordinatore provinciale William Casoni, ricordando che due anni fa il Comune aveva celebrato il Giorno del Ricordo con un convegno online animato da un “giustificazionista”. Si tratta dello storico torinese Eric Gobetti, al centro di vivaci polemiche per la sua rilettura della tragedia delle foibe (ma anche per le prese di posizione politiche, compreso un post di insulti a Giorgia Meloni comparso sul suo profilo Facebook e del quale si era poi scusato).
 
Il Comitato 10 Febbraio, che ha promosso il convegno con Menia, ha menzionato le iniziative assunte da diversi comuni della provincia Granda, con intitolazioni alle vittime delle foibe e a Norma Cossetto, la giovane istriana violentata e infoibata nel 1943 che è divenuta un simbolo del martirio del suo popolo: “Fossano, Bra, Cervasca, Boves, Savigliano, Racconigi, Mondovì, Alba e ora Valdieri. Se oggi c’è un problema a Cuneo, non è così in provincia di Cuneo” ha affermato Denis Scotti, presidente del comitato provinciale. “Questa - ha aggiunto - non è una battaglia politica e nemmeno di comitati: è una battaglia di civiltà, non di loghi. Se il Comune di Cuneo vuole organizzare qualcosa, siamo pronti a offrire consigli senza mettere il logo del comitato”. Un gesto di distensione, come l’invito a Patrizia Manassero: “Avevo invitato la sindaca e non è venuta: peccato”.
 
Nessun esponente della giunta in platea. C’erano invece alcuni consiglieri cuneesi (Noemi Mallone e Massimo Garnero di Fratelli d’Italia e Beppe Lauria di Indipendenza!), i sindaci Guido Giordana di Valdieri, Alberto Bianco di Castelmagno, Valerio Oderda di Racconigi e Roberto Mellano di Envie (quest’ultimo in compagnia di Chiaffredo Peirone, probabile candidato sindaco del centrodestra a Saluzzo) e quasi tutto lo “stato maggiore” di FdI in provincia, a cominciare dalla deputata Monica Ciaburro e dal capogruppo regionale Paolo Bongioanni. Anche Oderda, parlando a nome dei sindaci, ha stigmatizzato la sua omologa cuneese: “Dare dignità in modo apolitico a questa data è fare sì che il tricolore sia sulle spalle di tutti. I sindaci devono essere orgogliosi di esserci il 10 febbraio, così come in tutte le altre ricorrenze dello Stato: non è accettabile che qualcuno possa ‘darsi malato’, perché chi è eletto rappresenta tutti”. In veste di sindaco di Argentera, oltre che di parlamentare, Ciaburro ha sottolineato comunque i cambiamenti in positivo: “Ci sono persone che fino a ieri non mi avevano mai detto ‘mia mamma viene da Pola’: c’era la paura di essere segnati, di essere mortificati ancora una volta per le proprie radici. Nessuno sapeva chi fossero gli esuli e nessuno della mia generazione ha potuto studiare sui libri di storia quelle pagine”.
 
Menia, figlio e nipote di esuli di Buie, la “sentinella dell’Istria”, ha raccolto per anni le storie personali di una generazione ormai quasi scomparsa, quella dei 350mila che abbandonarono le proprie case per continuare a chiamare “patria” la propria terra: “C’è una storia dell’Adriatico orientale che gli italiani non conoscono più” ha ricordato il senatore. In questa storia rientrano anche le politiche di assimilazione nazionale perseguite, su entrambe le sponde, già tra il XIX e il XX secolo, e oggi rinfacciate dagli uni e dagli altri: “La tendenza alla croatizzazione o all’italianizzazione è una storia lunga e non nasce certamente con il fascismo, che pure ci è andato giù pesante: luoghi come l’isola di Curzola furono jugoslavizzati già negli anni Venti”. Secoli di convivenza ma anche di incomprensioni, fino al terribile epilogo novecentesco: “A Trieste mi chiedevo cosa dovessi festeggiare il 25 aprile, quando all’occupazione nazista si è sostituita quella comunista e solo in città sono scomparse quattromila persone. Non c’era nessuna logica militare e nessun diritto di rivalsa su quanto avvenuto prima, al contrario di quanto sostengono i giustificazionisti: c’era semplicemente la volontà annessionista di Tito che voleva portare il confine oltre Udine”.
 
Nel libro si ripercorrono anche vicende meno note rispetto a quella di Norma Cossetto e della sua famiglia, come la tragica fine di Odda Carboni, 39enne di Albona, gettatasi nella foiba prima che i suoi carnefici potessero assassinarla, al grido “viva l’Italia”: la storia è stata raccontata solo nel 2001, cinquantasette anni dopo la sua morte, da un partigiano jugoslavo che ne era stato testimone. Tra le vittime ci furono anche sacerdoti, come don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovigno, il cui cadavere fu ritrovato con una corona di spine infissa sul capo e i genitali tagliati in bocca, o don Francesco Bonifacio, che l’11 settembre del 1946 fu lapidato mentre pregava per i suoi carnefici: “Chi non ha il coraggio di morire per la propria fede è indegno di professarla” aveva scritto solo pochi mesi prima.
 
Il destino dei sopravvissuti, a volte, non fu più clemente: il dottor Geppino Micheletti fu tra i primi a prestare soccorso ai feriti della strage di Vergarolla, l’esplosione del 18 agosto 1946 che provocò oltre cento morti sulla spiaggia di Pola, in una probabile ritorsione contro la comunità italiana ancora maggioritaria in città. Tra i cadaveri vide arrivare quelli del figlio Carletto, di cinque anni. Dell’altro figlio Renzo, nove anni, restarono solo una scarpina e un calzino. Il medico continuò comunque ad assistere feriti e moribondi e mesi più tardi coordinò l’evacuazione di malati e ricoverati dell’ospedale con la Croce Rossa. Da Pola andarono via 32mila dei 34mila abitanti, compreso il medico eroe, sull’ultimo piroscafo: “Non potevo rimanere lì e pensare che avrei potuto curare gli assassini dei miei figli” racconterà più tardi. In Italia aveva portato il calzino del figlio mai ritrovato, che teneva nella tasca del camice ospedaliero come portafortuna.

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