“Vi chiedo di studiare il Tibet, non di averne pietà: ognuno può fare la sua parte nel luogo in cui vive”. Risponde così Namgyal Tsering, ex vicepresidente della Comunità Tibetana in Italia, a chi gli domandi cosa si possa fare oggi, a settemila chilometri di distanza dal tetto del mondo, per far sapere che la tragedia di un popolo non è stata dimenticata.
Tsering è intervenuto ieri sera, venerdì 11, all’incontro organizzato dall’associazione Rajiv Gandhi Home for Handicapped a Robilante, nei locali dell’ex Confraternita. La serata è parte di un evento intitolato “Tibet, un grido per la pace” che vede in corso d’opera la
realizzazione di un prezioso mandala di sabbia da parte di un gruppo di cinque monaci tibetani, scelti da S.S. il Dalai Lama e provenienti dal monastero di Sera Jhe nel sud dell‘India. I cinque religiosi lavoreranno fino a domenica al mandala dedicato ad Avalokiteśvara, il Buddha della compassione, recitando preghiere e benedizioni: nel pomeriggio di domani, intorno alle ore 16,45, è prevista la distruzione rituale con lo spargimento delle sabbie.
L’evento vuole essere un modo per ricordare una questione nazionale ormai finita sotto silenzio. Passato il periodo delle clamorose proteste con le autoimmolazioni di religiosi e civili (almeno 157 persone si sono date fuoco solo dal 2009 a oggi) e della visibilità mediatica, legata alle conversioni di attori hollywoodiani e personaggi famosi e a film come Sette anni in Tibet e Piccolo Buddha, resta la realtà di un popolo tuttora sottoposto a una politica di assimilazione che rischia di portarlo all’estinzione. Il numero di rifugiati all’estero supera i 135mila e si stima che oltre un milione di tibetani siano morti in conseguenza dell’invasione cinese del 1959: in tutto, la popolazione nell’immensa regione himalayana si aggirava all’epoca intorno ai sei milioni. Nei 64 anni di occupazione il 90% del patrimonio artistico è stato distrutto, compresi seimila monumenti tra templi, monasteri e stupa (i reliquiari buddisti).
La Cina vuole mantenere il controllo su un’area strategica sia per la sua posizione che per le risorse naturali: il maggior deposito di rame cinese è la miniera di Yulong in Tibet, dove si trovano anche ingenti depositi di ferro, piombo, zinco e cadmio. I geologi sostengono che il sottosuolo celi significative riserve di petrolio e gas naturale, sebbene l’altitudine e le caratteristiche del territorio ne rendano difficile l’estrazione. Oltre a questo, i ghiacciai dell’Himalaya sono il serbatoio d’acqua dolce dell’Asia. Pechino ha investito molto, nell’ultimo quindicennio, nelle infrastrutture a servizio della regione: ferrovie, strade e l’aeroporto di Gonggar, uno dei più alti del mondo a 3600 metri, a prezzo di una massiccia deforestazione e dello stoccaggio di ingenti quantità di rifiuti nucleari. Ma l’oppressione culturale continua, seppur in forme meno tragiche rispetto al periodo maoista: in Tibet sono di stanza un numero imprecisato di soldati cinesi (si pensa siano mezzo milione) e il massiccio afflusso di immigrati sta minacciando l’esistenza del popolo tibetano. Gli autoctoni denunciano la prosecuzione di pratiche di sterilizzazione e aborti forzati e denunciano l’emarginazione in tutti i settori, da quello scolastico a quello religioso e lavorativo.
“Questi dati sono in costante peggioramento” denuncia Tsering: “La novità molto grave degli ultimi anni è che più di un milione di bambini sono stati portati via dalle famiglie, con la scusa di dargli un’educazione ‘moderna’. Abbiamo pregato per secoli e secoli ma la preghiera non basta: serve un grido di pace per salvare la cultura del Tibet”. Tsering dice di comprendere i motivi economici che hanno portato molti Paesi a rivedere le proprie politiche: “È logico che ci siano maggiori benefici a commerciare con la Cina, ma bisogna operare delle scelte per essere sicuri di non danneggiare la minoranza tibetana”.
Le rivendicazioni, spiega, sono orientate sul piano culturale e religioso più che politico in senso stretto: “Il regime comunista non accetta le religioni, anni fa sono stati perseguitati anche i cattolici prima che la Chiesa stringesse un patto che autorizza lo Stato a scegliere i vescovi. Hanno fatto tutto il possibile per sterminare la stirpe tibetana e la religione buddista, ma la ricchezza materiale non sarà mai sufficiente a far morire la speranza che i tibetani hanno mantenuto”. Per gli esuli questa speranza è quella di un cambiamento: “Crediamo che prima o poi accadrà in Cina ciò che è successo in Unione Sovietica, ma ci auguriamo che il cambiamento avvenga in modo pacifico, senza perdere neanche una vita. Se dopo questo continueranno a dire che il Tibet è Cina, per me va bene: un passaporto non è che un pezzo di carta”.
Il quattordicesimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso, ha festeggiato da poco gli ottantotto anni, dopo le polemiche che l’avevano investito alcuni mesi fa a seguito della pubblicazione di un video. La massima autorità religiosa e politica del Tibet ha fatto sapere da tempo che la carica, istituita nel sedicesimo secolo, potrebbe cessare di esistere dopo la sua morte. Anche su questo Tsering fa chiarezza: “Non abbiamo bisogno di un ospedale di dieci piani se non ci sono medici, allo stesso modo non abbiamo bisogno di templi se non ci sono monaci. Il Dalai Lama attuale ha detto che spetterà ai tibetani decidere se vogliano un successore, se così sarà ci sono i metodi per individuarlo. Ma noi non abbiamo dubbi”.