Nei giorni scorsi, parlando con un dirigente scolastico di Cuneo, chi scrive ha appreso dell’esistenza di Google Classroom.
Di che cosa si tratta? È un pacchetto di G Suite for Education, offerto alle scuole dal colosso di Mountain View e ritenuto molto interessante dagli insegnanti per sviluppare l’attività didattica su supporti digitali. “Consente di ottimizzare i compiti, rafforzare la collaborazione e agevolare la comunicazione, rendere l'insegnamento più produttivo e significativo. I docenti possono creare corsi, distribuire compiti, inviare feedback e tenere tutto sotto controllo, in un unico posto” si legge nell’apposita guida. Lì per lì la riflessione è stata più sulla rapida evoluzione che ha avuto il sistema scolastico che sugli effetti di tale scelta. L’emergenza sanitaria data dal diffondersi del Coronavirus e la conseguente chiusura a medio termine degli istituti italiani, ha dato una decisa accelerazione al processo di googlizzazione della scuola pubblica. Ed ecco che sul quadrante della (pur poca) materia grigia si è accesa una spia di emergenza.
Quando, tre lustri fa, lasciai i banchi delle scuole superiori, i testi scolastici erano l’unica fonte di sapere, a meno di non voler trascorrere lunghi pomeriggi tra gli scaffali della biblioteca. Wikipedia si affacciava appena al mondo del web e non era ritenuta una fonte attendibile. I miei compagni di classe ed io ignoravamo l’esistenza di WhatsApp, Facebook, Twitter e YouTube, al massimo si mandava un Messaggio in Bottiglia su Cuneo2night o, alla peggio, un SMS (magari approfittando di qualche promozione estiva). Insomma, tutto un altro mondo, del quale ricordo nitidamente i pippozzi dei professori sull’opportunità di partecipare, come scuola, a questo o quell’evento perché sponsorizzato da un privato. E se a una qualche conferenza su qualsiasi tema dello scibile umano l’amministratore delegato o il titolare di qualche impresa che non fosse una onlus prendeva la parola giù un altro sermone sulla necessità di salvaguardare l’indipendenza della pubblica istruzione.
A quasi quindici anni di distanza, molti insegnanti stanno utilizzando la piattaforma (intendiamoci, animati da buone intenzioni), per condividere esercizi e lezioni, inconsapevoli del fatto che così facendo stanno consegnando la scuola in mano ai privati. Una privatizzazione di fatto non avvertita, forse perché il business del mondo dei big data non è di facile comprensione. È però innegabile che, approfittando dell’epidemia, il gigante californiano, da alcuni definito l’azienda più totalitaria della storia del mercato, stia mettendo le mani sull’istruzione pubblica.
In seguito all’avvento del web, vale a dire uno dei cambiamenti culturali più repentini e impattanti della storia dell’umanità quegli stessi docenti (al netto dei pensionamenti) consegnano l’insegnamento al motore di ricerca, considerando Google un’intelligenza artificiale animata dai propositi più nobili e proiettata verso l’illuminazione del mondo. Peccato che dietro le sei lettere colorate della nostra home non ci sia né più né meno che un’azienda, peraltro molto potente, certamente la più invasiva di sempre nelle vite di ognuno di noi.
Dopo aver regalato senza colpo ferire il nostro presente, tra tracciamento dei dati e geolocalizzazione no stop, siamo sicuri di voler affidare alla multinazionale californiana anche la sorveglianza sul nostro futuro? La domanda non è rivolta solamente agli insegnanti, ma anche e soprattutto ai decision maker: non è il caso che la scuola italiana si doti di una piattaforma autonoma e indipendente? Ad oggi la cosiddetta degooglizzazione è ancora possibile, forse. Di certo serve un passaggio culturale non semplice nel mondo iperglobalizzato di oggi, ma le conseguenze di un mancato intervento potrebbero essere nefaste.
Nel finale lascio da parte qualche scontato (ma efficace) aforisma copianicollato di George Orwell e del suo romanzo 1984, ripescando piuttosto una vecchia affermazione di Pier Paolo Pasolini, intellettuale italiano troppo spesso citato a sproposito e troppo poco ricordato per le sue intuizioni: “Il nuovo fascismo non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l'omologazione brutalmente totalitaria del mondo”.