CUNEO - L'inverno demografico non risparmia la Granda

Il dato più eclatante a Castelmagno, che ha perso quasi il 39% della sua popolazione in dieci anni (ma c'entra anche lo spopolamento delle valli)

Micol Maccario 19/12/2022 11:15

Il calo delle nascite è un tema attuale che riguarda tutta l’Italia e non risparmia la provincia Granda. Molte sono le motivazioni per cui le persone non fanno più figli ma non per forza, secondo alcuni studiosi, questa sarebbe una cattiva notizia
 
Nel 2070 la popolazione italiana scenderà sotto quota 50 milioni secondo le previsioni demografiche dell’Istat. Rispetto a inizio secolo si sono perse 136mila culle l’anno, riporta “Il Sole 24 ore”. Viene definito “inverno demografico” e la zona del Cuneese non ne è immune. 
 
La Fondazione Think Tank Nord Est ha promosso il report dal titolo “L’inverno demografico dell’Italia: il calo della popolazione colpisce di più i piccoli comuni” in cui analizza l’andamento demografico nella penisola, fornendo i dati di tutti i comuni italiani. In generale, negli ultimi dieci anni si è registrato un calo generale della popolazione, ma il rapporto indica che ci sono differenze sostanziali tra piccoli e grandi centri. Sono soprattutto i paesi con meno di 3mila abitanti a evidenziare una drastica riduzione dei residenti. I centri con meno di 3mila abitanti in Italia sono 4454, cioè il 56,4% del totale. Ma in queste zone vive solo il 9,4% degli italiani. La situazione peggiore riguarda i micro-comuni, cioè quelli con meno di 500 abitanti, che hanno perso in media l’11,6% della popolazione. Secondo le previsioni degli esperti questa flessione non è destinata a fermarsi, ma si intensificherà nei prossimi anni. Di conseguenza, sarà sempre più difficile garantire servizi efficienti ai cittadini rimasti.
 
Il Cuneese non è immune all’inverno demografico
 
La tendenza generale del calo delle nascite viene confermata dai dati relativi ai comuni della Granda. In testa si trova Castelmagno che, dal 2012 ad oggi, ha perso il 38,80% della sua popolazione. Male anche Roaschia con il -29,85%, Casteldelfino con il -20,11% e Aisone che registra una perdita del 18,97%. Molti sono gli altri centri che seguono a ruota. Tra i tanti ci sono zone come Entracque (-7,09%), Acceglio (-9,77%), Celle di Macra (-10,64%), Elva (-16,16%), Moiola (-14,90%), Roccavione (-8,76%) e Vernante (-9,37%). Positivo invece, anche se di poco, il dato di Cuneo che, in dieci anni, è migliorato del 0,43%.
 
Secondo gli autori del report, i piccoli comuni dovrebbero aggregarsi con quelli limitrofi, in modo da offrire alla popolazione i servizi su un territorio più ampio. Inoltre, evidenziano la possibilità di ottenere, grazie alle fusioni, incentivi statali da utilizzare per investimenti e progetti per migliorare la qualità della vita di queste zone. “La fusione è un’opportunità fondamentale per garantire i servizi nelle aree caratterizzate da piccoli Comuni - sostiene Antonio Ferrarelli, presidente della Fondazione Think Tank Nord Est - e proprio per questo i processi di aggregazione dovrebbero essere promossi e incentivati ancor di più dal nuovo Governo”
 
Le conseguenze della denatalità
 
Il calo della natalità preoccupa. Secondo le stime del presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo, nel 2070 il Pil scenderà di 500 miliardi dagli attuali 1800. Di conseguenza, il nostro Paese perderà bambini, giovani, futuri lavoratori e lavoratrici, mentre aumenterà la popolazione anziana. Ma, secondo Christine Percheski, professoressa di sociologia della Northwestern University, il tasso di natalità non è necessariamente una cattiva notizia. Rappresenta, da un lato, la continuazione di una tendenza decennale e, dall’altro, un simbolo di progresso nell’equità di genere. Secondo la professoressa la situazione negli anni è cambiata perché le donne ora hanno accesso all’istruzione e alle opportunità di lavoro. È “l’ascesa dell’individualismo, si tratta dell’aumento dell’autonomia delle donne e di un cambiamento di valori”, riporta il giornale “Insider”. Questo avviene perché le donne scelgono di sposarsi più tardi e di studiare più a lungo rispetto a un tempo, facendo valere prima la loro individualità e poi il ruolo di madri.
 
Perché si fanno meno figli?
 
Le motivazioni che si adducono a questa scelta sono solitamente relative alla paura del futuro a causa delle crisi costanti, del cambiamento climatico, delle incertezze generali. A queste ragioni si aggiunge la mancanza di servizi di cura che impedisce alle donne di essere lavoratrici e madri contemporaneamente, ma anche agli uomini di essere lavoratori e padri. Per non parlare poi delle coppie omosessuali o di single che vorrebbero un figlio, per cui bisogna fare un passo indietro parlando prima dei diritti che possiedono in Italia e, solo in seguito, della mancanza di servizi. 
 
In realtà, non esiste una risposta univoca alla domanda “perché si fanno meno figli?”, ma una riflessione sul tema può scaturire dalla lettura del libro “I figli che non voglio” della giornalista Simonetta Sciandivasci, che offre una serie di voci differenti sul concetto di maternità, famiglia e genitorialità. A partire da un articolo pubblicato da Sciandivasci su “Specchio”, l’inserto del sabato de “La Stampa”, si è scatenata una vera e propria discussione sul tema della maternità, con centinaia di lettere ed e-mail recapitate alla redazione, poi il tutto confluito nel libro edito da Mondadori.
 
L’autrice scrive che “non si fanno più figli perché il Paese non aiuta le donne. È vero. Ma dobbiamo fare i conti con il fatto che la denatalità sia in parte irrisolvibile: esistono persone che non vogliono una famiglia e non si possono convincere”. Sciandivasci dice di far parte di quel 5%, secondo Istat, di donne “che non fanno figli perché non vogliono. E non perché non possono permetterselo, o perché sono sfiduciate, spente, nichiliste, sole, ciniche”
 
Ma nel libro quella di Sciandivasci non è l’unica voce. Intervengono madri che da sempre hanno voluto esserlo e donne che lo desideravano ma non hanno potuto. Si fanno largo il tema del congelamento degli ovuli e quello dell’adozione delle persone single, trasformando il libro non in un manifesto della libertà di cui godono le donne senza figli, ma in una profonda riflessione sull’essere o non essere genitori. Un dibattito per “smettere di pensare che l’inverno demografico sia una questione morale o economica: è, invece, una questione di prospettiva, che impone nuove lenti; è una questione di geografia politica e riorganizzazione del mondo secondo nuovi criteri”.

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