Ci sono verità che nelle aule di giustizia non si possono conoscere, giacché “lo Stato non processa se stesso”. Ne è convinto Attilio Bolzoni, un cronista con quarant’anni di carriera spesi a raccontare Palermo e la mafia, quella di ieri e quella di oggi. Perché la Palermo degli anni Ottanta era tutt’altro, certo: “Una città in fondo al Mediterraneo che non era né Africa né Europa, una sacca infetta. Una città sospesa, dove comandava l’organizzazione segreta più potente del mondo occidentale”.
Bolzoni ha parlato di tutto questo a Cuneo insieme al procuratore capo di Cuneo Onelio Dodero, ex magistrato antimafia e artefice del processo Capaci bis contro gli autori dell’attentato a Falcone, e all’avvocato Flavio Sinatra, difensore di imputati “eccellenti” in alcuni dei procedimenti più importanti contro la mafia delle stragi. Oltre tre ore di dibattito nell’appuntamento organizzato in municipio dalla sezione cuneese della Camera Penale di Torino, presieduta dall’avvocato Dora Bissoni.
Inevitabile una riflessione sugli eventi che hanno portato al recente arresto di Matteo Messina Denaro, l’ultima primula rossa di Cosa Nostra. “Non credo alla trattativa nell’arresto di Messina Denaro: se una trattativa c’è stata, è stata interna alla mafia” dice Bolzoni. Dodero concorda, allargando il discorso alle stragi: “Ci sono sicuramente ancora ‘buchi neri’ e aspetti da chiarire, ma la massima parte del lavoro di ricostruzione sulle stragi e sulle esecuzioni è stato fatto”. Eppure è lo stesso procuratore a definire “una vicenda scabrosa e scandalosa, oggetto di un depistaggio incredibile” quanto accaduto dopo la strage di via D’Amelio. Il pentito Gaspare Spatuzza, dalle cui rivelazioni prenderà avvio il processo Capaci bis, parla anche di questo: nel garage in cui portò a riempire di esplosivo la Fiat 126 utilizzata per l’attentato a Borsellino, dice, ci sarebbe stata “una persona estranea che non aveva mai visto e che lui non crede essere appartenente a Cosa Nostra. Lo descrive come un uomo ‘distinto e ben vestito’”.
Se quell’oscuro individuo fosse o meno un appartenente a qualche settore deviato dello Stato, però, non si è mai riusciti a capirlo: “A Spatuzza abbiamo mostrato tutte le fotografie di appartenenti al Sisde a nostra disposizione, non ha riconosciuto nessuno” dice l’ex capo della Procura di Caltanissetta. Un particolare inquietante, aggiunge Dodero, è che dopo l’esplosione alcuni elementi della polizia giudiziaria iniziarono a mettersi sulle tracce di una 126, sebbene nessun indizio a riguardo fosse ancora emerso.
“Incredibile” è lo stesso aggettivo cui Bolzoni ricorre per spiegare il mistero della mancata perquisizione al covo di Riina. L’arresto del capo dei corleonesi è propiziato dalla cattura di Balduccio Di Maggio, avvenuto sei giorni prima a Borgomanero, nel Novarese. Di Maggio collabora fin da subito, ma pretende che a raccogliere le sue confidenze sia il generale dei carabinieri Francesco Delfino: una figura ambigua di ex ufficiale del Sismi, coinvolto nelle indagini sulla strage di Brescia e più tardi condannato per essersi appropriato del riscatto versato dalla famiglia dell’industriale rapito Soffiantini. I carabinieri affermeranno di essere arrivati a Di Maggio seguendo le tracce di un traffico di droga, di cui tuttavia non si saprà più nulla.
Dopo l’arresto di Riina il secondo mistero, legato alla mancata perquisizione del covo. Una scelta che i Ros giustificheranno in base alla tattica delle “foglie morte”, adoperata anche dal generale Dalla Chiesa per catturare i terroristi di rientro nelle basi già scoperte. “Dopo cinque ore però il covo non era già più sorvegliato, sebbene i Ros dessero rassicurazioni a riguardo” spiega Bolzoni: “Si scoprirà cinque giorni più tardi che la moglie di Riina era tornata a Corleone. Nel covo le stanze erano vuote e i mobili divelti, tutte le pareti ritinteggiate, la cassaforte portata via dal suo vano. Una squadra di corleonesi l’aveva ripulito”.
I Ros, ricorda Dodero, si erano mossi già dopo la strage di Capaci per intavolare una trattativa con i capi mafia, attraverso l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino: “Sicuramente hanno peccato di presunzione ritenendo che Riina potesse trattare in cambio di qualche beneficio. Si pensa anzi che sia stata questa interlocuzione a stimolare le stragi del 1993, attuate dopo la fine degli omicidi politici, per far sì che le richieste presentate da Riina nel ‘papello’ avessero risposta. Sono le famose ‘bombe del dialogo’, un avvertimento al governo di cui tuttavia il governo non sapeva niente, perché lasciato all’oscuro”.