Quarant’anni dalla notte del 26 giugno 1983, quando il procuratore di Torino Bruno Caccia fu ammazzato a due passi da casa mentre portava a spasso il cane. Quattordici colpi esplosi da una Fiat 128 di colore verde, con almeno due uomini a bordo, contro un magistrato che agli occhi della criminalità organizzata rappresentava un pericolo, impossibile da fronteggiare con mezzi diversi dalle armi.
Il perché lo avrebbe spiegato anni dopo, in carcere, il boss della ‘ndrangheta Domenico Belfiore: “Con il procuratore Caccia non ci si poteva parlare”. Era stato lui in quegli anni a portare avanti inchieste sulle connessioni delle cosche con settori dello Stato, un tema di cui allora nessuno parlava. Come nell’indagine a carico del dottor Germano Oseglia, medico del centro clinico ospedaliero delle carceri giudiziarie, che dietro pagamento rilasciava falsi certificati ai detenuti affiliati ai clan per ottenerne la scarcerazione. Altre inchieste importanti avrebbero smascherato il contrabbando dei petroli, le tangenti e il riciclaggio di denaro sporco tramite i casinò del nord Italia.
Caccia era nato a Cuneo il 16 novembre 1917, da una famiglia originaria di Ceresole d’Alba, con una lunga tradizione in magistratura. A soli 42 anni era divenuto procuratore della Repubblica ad Aosta, poi era tornato come sostituto a Torino, dove aveva preso a servizio all’inizio della sua carriera, nel 1972. Sarà lui a raccogliere le dichiarazioni di Patrizio Peci, il primo pentito delle Brigate Rosse, firmando la richiesta di rinvio a giudizio di 70 brigatisti, tra cui i capi del cosiddetto “nucleo storico” Renato Curcio, Alberto Franceschini e Prospero Gallinari. Per questo le indagini sulla sua morte si orientano in principio sulla pista terroristica, prima le Brigate Rosse, poi i neofascisti dei Nar. L’imbeccata giusta arriva però da un mafioso in carcere, Francesco Miano, boss del clan dei catanesi insediato a Torino. Grazie all’intermediazione dei servizi segreti Miano decise di collaborare e raccolse le confidenze del compagno di detenzione Domenico Belfiore, uno dei capi della mafia calabrese a Torino. Nel 1992 Belfiore venne quindi condannato all’ergastolo.
Una verità giudiziaria esiste ora anche riguardo all’autore materiale dell’assassinio, identificato nel 2015 dalla DDA di Milano: Rocco Schirripa, panettiere calabrese di 62 anni, immigrato a Torrazza Piemonte. Schirripa è stato condannato all’ergastolo in tre successivi gradi di giudizio e dalle sue dichiarazioni, lo scorso anno, è partita una nuova indagine coordinata dalla Procura Generale di Milano. Si punta a fare piena luce su chi decise che Bruno Caccia doveva morire. Lo chiedono da tempo i suoi familiari, come la figlia Paola: “Per il trentennale della sua morte avevamo chiesto oltre alla memoria anche di dare una svolta alla ricerca della verità che era ferma. In questi dieci anni poco è cambiato” ha dichiarato di recente a LaPresse. “Oramai - ha aggiunto - ci interessa più che altro la verità storica”.
Venerdì 21 luglio alle 21 il comune di Ceresole d’Alba ricorderà la figura del magistrato, tuttora l’unico nel nord Italia a cadere vittima della mafia. La serata vedrà a partecipazione del presidente della Provincia di Cuneo Luca Robaldo, del procuratore capo di Asti Biagio Mazzeo e di Paola Caccia.