DRONERO - Quirico sferza l’Europa immorale: “Abbiamo usato gli ucraini per una guerra che pensavamo nostra”

L’inviato di guerra a Dronero per Ponte del Dialogo: “Chi parla di riarmo vada sui campi di battaglia, a guardare gli occhi dei morti spalancati verso il cielo”

Andrea Cascioli 21/03/2025 16:31

Il buio in platea cancella i contorni dei volti, non le emozioni, la tensione dell’ascolto. Parla Domenico Quirico e il suo non assomiglia a nessuno dei discorsi sulla guerra che sentiamo fare in televisione, da chi la guerra non l’ha mai vista, né sentita, né annusata: il vento che porta l’odore nauseante dei cadaveri nelle città, i campi deserti dove è passata la morte.
 
“Porterei chi parla di riarmo e di eserciti da costruire a guardare un campo di battaglia” dice lo storico inviato de La Stampa, al pubblico che affolla il Teatro Iris di Dronero per il festival Ponte del Dialogo: parla degli occhi dei morti, Quirico, di come li ha visti “spalancarsi verso il cielo”, delle loro mani. “Ho visto campi di battaglia in Siria - spiega - dove l’ultimo sforzo disperato di chi ha la pancia squarciata o il cervello che fuoriesce dalle orecchie è piantare le mani nella terra, come se cercasse lì la forza per l’ultimo respiro. Andate lì e poi venitemi a raccontare di quante bombe riuscite a costruire: allora ne potremo parlare”.
 
 
Trump, il male necessario: “A Zelensky ha dato una lezione di realismo”
 
Mentre queste parole raggiungono la platea non si sente un rumore. Si leva un applauso, dopo, qualcuno piange. Il cronista di guerra non ne fa un discorso moralistico: non gli appartiene. Anzi, ai pacifisti rinfaccia ciò che non torna in un ragionamento dove tutto è etico e niente politico: “Non sono riusciti a ottenere niente: a parole tutti sono per la pace, anche Putin parla di ‘pace duratura’”. Consigli? “Abbandonare una certa scenografia pacifista, quella degli anni Settanta: quando il pacifismo ha avuto un ruolo, ma era un mondo totalmente diverso. Continuare a praticare un pacifismo scenografico, con la colomba e la canzoncina di John Lennon, porta solo a qualche forma di autoassoluzione e di compiacimento”.
 
Di pace si sentiva parlare anche a Roma, sabato scorso: “La manifestazione di Serra mi sembrava un gran guazzabuglio. C’era veramente un po’ di tutto, Calenda che forse vorrebbe la guerra atomica contro la Russia e altri che andavano con la bandiera della pace”. Il punto è che, per quanto sia banale, la guerra è prima di tutto “un grande, straordinario affare: qualcosa che non è ideologico”. E l’Ucraina in questo “è uno scenario secondario, un piccolo innesco, purtroppo per gli ucraini”.
 
Già, gli ucraini: stretti fra l’incudine americana e il martello russo. Trump? Un male necessario, in qualche modo: “Ci voleva un momento in cui i contendenti, invece di maledirsi, cominciassero a parlarsi. E l’unico che poteva fare questa cosa era uno scombinato come Trump: perché lui se ne frega di parlare con un ricercato dalla Corte Penale, delle remore che gli altri utilizzavano per non fare niente. È incredibile, ma è così: i tempi del caos e del disordine esigono gente che nel disordine immerga le mani”. A Zelensky il presidente americano ha dato “una lezione di realismo”, in “modo brutale, maleducato e totalmente antidiplomatico”: “Senza gli americani, solo con gli europei, Zelensky non solo perde ma perde molto più rapidamente di quanto potesse immaginare: noi siamo immersi nel nostro sistema di bancomat e soldi, non funziona più”.
 
L’Europa vittima di Trump? No, risponde Quirico, l’Europa è soprattutto vittima di sé stessa. Vale per i suoi leader, a cominciare da Macron e Starmer, fermi secondo il giornalista in uno scenario da crisi di Suez: “Credono che il mondo sia ancora quello, in cui possono lanciare i paracadutisti sul Donbass”. Ma questo, avverte, è molto pericoloso: “I loro Paesi sono micropotenze che non hanno più alcun ruolo: la Francia è stata sbattuta fuori a pedate dagli eserciti di tre dei Paesi più poveri del mondo, Burkina Faso, Niger e Mali. La Gran Bretagna dopo la guerra fredda ha scelto di fare lo chaperon, la mosca cocchiera degli americani: adesso non so che cos’abbiano in testa”.
 
A Stalin fecero notare, durante le trattative a Yalta, che Pio XII avrebbe voluto dire la sua sul futuro assetto mondiale: “Quante divisioni ha il Papa?” chiese ironico il dittatore sovietico. Quirico riprende la metafora per parlare dell’Unione Europea: “Von der Leyen quanti carri armati ha? Nessuno. Ha un sacco di soldi, ma ci vanno i soldati, i carri armati, la volontà di combattere, opinioni pubbliche che ritengono la guerra sacrosanta. Tutto questo non c’è, e allora non contiamo niente”. Si vagheggiano accordi di “peace keeping” in Ucraina, ma non c’è da crederci: “Qualcuno pensa che la Russia accetterà che truppe dei Paesi Nato vadano ai suoi confini a tutelare la pace? Evidentemente la loro idea è un’altra: far continuare la guerra agli ucraini, e dire che se è necessario siamo qua”.
 
È questo il grande inganno di quelli che l’inviato ha descritto come anni di “malattia della verità”: “Quello che c’è di immorale in questa storia, oltre all’aggressione russa, è il fatto che abbiamo usato un popolo intero per fargli fare una guerra che pensavamo fosse anche nostra: usare uomini di un altro Paese come ascari è contrario ai principi su cui l’Unione Europea è stata costruita. Se si ritiene che l’annientamento della potenza russa sia necessario per la sopravvivenza di un mondo ben ordinato, gli si fa la guerra: non lo si fa fare a un popolo di 30 milioni di persone, usandolo come carta vetro per usurare un po’ la pelle dell’orso russo”.
 
 
La Palestina sanguina: “Gettiamo nella spazzatura la formula dei due Stati”
 
Quirico il Vicino Oriente in fiamme l’ha raccontato fin dagli inizi delle primavere arabe, affrontando due rapimenti: uno di due giorni in Libia, nel 2011. L’altro in Siria, nelle mani dei jihadisti, per cinque interminabili mesi nel 2013. Quello che l’ha colpito a proposito dell’attacco di Hamas il 7 ottobre, dice, è lo sfaldamento di un muro “che è il ritratto dell’idea occidentale della sicurezza, la separazione fisica unita a una tecnologia che dà la certezza di essere intoccabili”.
 
Per gli arabi Israele è “l’ultima colonia occidentale in un mondo che non gli appartiene più”: “Tutto quello che abbiamo fatto finta di inventare dal 1948 per porre fine a quel massacro continuo era totalmente inconsistente. Non esiste una soluzione politica, militare, diplomatica e morale alla domanda tragica e tuttora senza risposte di come far convivere palestinesi e israeliani: perché i popoli sono due e la terra è una ed entrambi i popoli la vogliono tutta, non una parte. Questa è la mistificazione che abbiamo avvalorato”. Il suo appello va in direzione contraria a ogni vulgata: “Gettiamo nella spazzatura la formula dei due popoli per due Stati”.
 
La cosa che potrebbe legare palestinesi e israeliani, riflette, “è la constatazione reciproca della profondità della propria solitudine: sono i due popoli più soli della terra, indipendentemente da chi si proclama amico, perché sono nati nella solitudine. Israele è nato perché abbiamo cercato di toglierci dai piedi il rimorso fisico di quello che avevamo fatto. Dall’altra parte è stato lo stesso: i regimi arabi detestano i palestinesi, darebbero una mano a Netanyahu ma Netanyahu li vuole spedire da loro”. I palestinesi hanno rivissuto sulla loro pelle la diaspora dei nemici mortali. Eppure, scacciati, hanno rifiutato di omologarsi: “Come gli ebrei che dal secondo secolo dopo Cristo non si sono omologati, sono rimasti disperatamente ebrei”.
 
“Un contemporaneo, straordinario, miracoloso perdono reciproco”: questo, non altro, è ciò che potrebbe dare pace a quella terra: “Ci va un miracolo, certamente non gli attuali leader degli uni o degli altri: qualcuno che riconosca questa identità del dolore e arrivi a un atto, prima di tutto religioso, di reciproco contemporaneo perdono”.

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