CUNEO - Salute mentale, è allarme anche a Cuneo. Risso: "Situazione agghiacciante"

Il direttore del dipartimento interaziendale dell'Asl CN1 e del Santa Croce, tra i firmatari dell'appello alle istituzioni per incrementare i fondi: "Il rischio è chiudere le strutture nel momento in cui servono di più"

Micol Maccario 23/01/2023 07:39

La prima causa di disabilità nel mondo occidentale sono le malattie mentali e, in Italia, “milioni di persone ne soffrono”, spiega Francesco Risso, direttore del Dipartimento di Salute Mentale interaziendale dell’Asl Cn1 e dell’Azienda Ospedaliera "Santa Croce e Carle" di Cuneo. Eppure, la spesa per la salute mentale negli anni è scesa costantemente, attestandosi oggi intorno al 3% del Fondo Sanitario Nazionale. È un dato che acquista significato se paragonato alla spesa degli altri Paesi europei per la salute mentale, che si aggira intorno al 10-12%.
 
Le gravi condizioni in cui versano questi reparti hanno spinto 91 direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale di tutta Italia a scrivere una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al ministro della salute Orazio Schillaci e ad altri decisori politici ed economici. Tra i firmatari c’è anche il dottor Francesco Risso, secondo cui “è un periodo tragico per la mancanza di fondi, di specialisti e di operatori”. Nella lettera i direttori chiedono di raggiungere almeno il 5% del budget dedicato alla sanità, investendo in massimo un triennio oltre 2 miliardi di euro. Il fondo nazionale per la sanità dovrebbe essere implementato. Si richiede inoltre di consentire alle Regioni di attuare fin da subito un piano di assunzioni straordinario per far fronte alla carenza di personale.
 
Quella dei tagli al settore della sanità non è una scelta recente, né tantomeno una decisione di partito, “in questi ultimi trent’anni è stato depauperato da tutti i governi”, afferma Risso. In aggiunta alla lettera i firmatari si troveranno giovedì prossimo a Milano per “mettere le gambe a quello che abbiamo scritto”. L’obiettivo è quello di incontrare i decisori politici, magari Mattarella e Schillaci.
 
Il lavoro in ospedale non è più attrattivo a causa dei carichi di lavoro pazzeschi a fronte di un compenso non equo per dottori, infermieri e OSS, tanto che ai concorsi pubblici dove trent’anni fa arrivavano una quarantina di persone spesso oggi non si presenta nessuno. Le motivazioni sono molteplici: dal numero chiuso delle facoltà alle poche borse di studio. Per far fronte a questo problema si richiede una remunerazione migliore, in caso contrario il personale sanitario continuerà a cercare lavoro nelle strutture private. E le conseguenze sono drammatiche perché interi reparti rischiano di chiudere o di non fornire servizi efficienti. “Non ci sono possibilità di finanziare risorse riabilitative - spiega il direttore - quindi viene meno tutto il discorso del reinserimento sociale”. 
 
Il problema è che, mancando personale, in particolare per la notte vengono assunte le cooperative, soprattutto per i pronto soccorso, ma anche per i reparti: “Le cooperative vengono pagate tre volte tanto. È normale che la gente vada a lavorare da loro. In più, questo fa saltare tutto il lavoro d’equipe. Gli ultimi tre mesi sono stati un disastro totale”. 
 
Manca personale, si tagliano le risorse, ma i casi di disturbi mentali sono aumentati del 30%: “Il rischio è chiudere le strutture nel momento in cui servono di più”. L’appello era stato lanciato anche a inizio 2022 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che aveva evidenziato, in seguito alla pandemia, un aumento del 25% dei casi di depressione e ansia in particolare tra i più giovani. La difficile condizione economica conseguente al Covid sommata alla crisi europea causata dalla guerra tra Russia e Ucraina non ha fatto che peggiorare una realtà già critica.
 
La situazione è simile in tutta Italia: “In Lombardia mancano 3 mila psichiatri. Questo ha conseguenze agghiaccianti. Sono stati chiusi dieci reparti e altrettanti centri di salute mentale. Questo si somma alla carenza di fondi”. Le conseguenze si ripercuotono direttamente sul paziente, ma anche sulla famiglia, che si trova a gestire una “situazione profondamente dolorosa. Il risultato è che poi i pazienti non vivono più, stanno chiusi in casa. In aggiunta, nessuno dei lavoratori dei reparti può andare a casa loro perché non c’è personale”. Arriva forte la denuncia del direttore del dipartimento, che sostiene che le famiglie, in questi anni, non siano mai state sostenute dai decisori politici: “Per fortuna ci sono le strutture riabilitative, ma se mancano i medici dovremo chiudere”.
 
Il dottor Risso descrive la situazione come “agghiacciante”, in particolare perché queste malattie esordiscono nella prima età adulta, tra i 15 e i 20 anni: “Questi ragazzi investiti da un disturbo mentale grave, che prima studiavano o lavoravano, perdono le capacità cognitive, non hanno più un rapporto con la realtà”.
I reparti sono pieni di giovani, ragazzi che hanno tentato il suicidio, con lo spettro autistico, disturbi alimentari o problemi di sostanze: “Il 70% dei giovani che arrivano hanno fatto uso di sostanze sintetiche. Il problema è che alcune di queste non sono nemmeno tracciabili”. Poi l’appello del dottore: “Se non si interviene nel giro di tre o quattro mesi chiude tutto”. 
 
La situazione nel Cuneese non è diversa rispetto a quella del resto d’Italia. Manca personale, anche perché recentemente “sono andati in pensione cinque colleghi e due si sono spostati più vicini a casa. Stiamo iniziando a fare fatica. Abbiamo un dipartimento molto ricco, ma se manca il personale il rischio è quello di chiudere i servizi anche a Cuneo”, spiega Risso. Il problema è che “si parla sempre di territorio, ma sul territorio non si investe mai”.
 
Per adesso dal Governo è arrivata solo una risposta formale, ma l’obiettivo è quello di incontrare i decisori politici e pretendere fatti: “Sono trent’anni che la salute mentale viene depauperata e la situazione non riguarda solo i nostri reparti, ma tutto il Servizio Sanitario Nazionale”. La conseguenza è che, soprattutto nelle sedi più lontane dai grandi centri abitati, le file si allungano e “i reparti diventano dei pronto soccorso”.
 
La situazione deve cambiare. In caso contrario finirà che “chi ha i soldi si cura e chi non ha i soldi non si cura”. Senza un vero investimento “la qualità del lavoro si abbassa e i rischi ricadono direttamente sui cittadini”.
 

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