Negli scorsi giorni Instagram (ma non solo) è stato teatro di una polemica che ha coinvolto molte persone. Il noto profilo satirico SpurgatoCn ha rilanciato un articolo di opinione pubblicato dalla Nuova Gazzetta di Saluzzo. In questo articolo il giornalista chiedeva alle ragazze “un po’ di sobrietà”, giudicando inopportuno l’abbigliamento indossato da alcune sotto i portici saluzzesi e giustificando di conseguenza gli uomini a cui cadono gli occhi sui lembi di pelle scoperta delle adolescenti. Per il tono e gli argomenti l’articolo si è fatto notare tanto che, come ha scritto la Nuova Gazzetta qualche giorno dopo, “ha suscitato un vasto dibattito tra i lettori e non solo”.
Sappiamo che in Italia le giovani donne con una laurea guadagnano il 58% in meno dei coetanei uomini (dati del rapporto Ocse “Education at a Glance 2024” pubblicato la scorsa settimana), che il tasso di occupazione femminile è di 14 punti percentuali sotto la media dell’Unione europea, che una donna su cinque esce dal mercato del lavoro dopo una maternità, che raggiungere posizioni apicali è molto più difficile per le donne che per gli uomini. Sappiamo che la strada da fare per raggiungere la parità auspicata dall’obiettivo 5 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è ancora lunga. Ma, a fronte di tanti traguardi ancora da conquistare, qualche diritto lo davamo ormai quasi per scontato. Pensavamo, ad esempio, di poter andare in giro vestite come vogliamo e che una gonna corta o una scollatura profonda non giustificassero gli sguardi predatori di alcuni uomini. Lo pensavamo, ma probabilmente sbagliavamo.
Forse, quindi, è necessario fare ancora una volta un passo indietro, non dare per scontato nessuno dei diritti acquisiti e spiegare nuovamente che “no, le grida e i fischi per strada non sono complimenti”, “no, gli sguardi inopportuni non lusingano”, “no, se una donna viene seguita, toccata, picchiata o stuprata la colpa non è di come era vestita”.
Le disuguaglianze di genere sul luogo di lavoro e la libertà di indossare ciò che si vuole senza essere giudicate sono fenomeni diversi, ma uniti da un fil rouge che ha a che fare con l’esercizio del potere, con il privilegio e con gli stereotipi. Con il passare degli anni sta crescendo la consapevolezza dei costrutti sociali in cui siamo stati immersi e che, di conseguenza, hanno influenzato il nostro modo di essere e di approcciarci al mondo. Infatti, in realtà un lato positivo di questa polemica c’è ed è rappresentato dalle persone che hanno letto l’articolo e hanno pensato “quello che sto leggendo è sbagliato”. Molti cuneesi hanno mostrato il loro dissenso con un commento, una condivisione su Instagram o rivolgendosi direttamente al giornale. È simbolo di una presa di coscienza che forse qualche anno fa non ci sarebbe stata, che forse sarebbe stata solo pensata o appena sussurrata.
Certo, un po’ di indignazione e qualche critica sono un segnale, ma non cambiano una società intera. Il cambiamento parte da ognuno e ognuna di noi, dalla consapevolezza che è necessario intervenire su tanti aspetti della quotidianità per decostruire secoli di stereotipi. Solo così potremo creare una società più sana, più equa, più inclusiva. Una società che non solo non scriverà più articoli su come si vestono le giovani saluzzesi, ma che avrà capito la differenza tra un complimento e una molestia, che sarà consapevole di cos’è il consenso, che saprà accettare un no o chiedere il permesso. Solo allora potremo abbassare un po’ la guardia perché da quel momento in poi il corpo femminile sarà finalmente una questione solo delle donne.