Gli uomini non lo sanno. Non sanno cosa significa calcolare il percorso per tornare a casa la sera cercando di non passare nelle vie buie e tenendo le chiavi in mano. Non sanno cosa significa essere seguita, chiamata da ragazzi sconosciuti per strada. Non conoscono quel tipo di paura perché non l’hanno mai provata. Non sanno cosa significa sentirsi sessualizzata. Non sanno nemmeno il dolore di uno schiaffo dato dalla persona che dice di amarti. Non immaginano cosa vuol dire morire ammazzata perché non sei più “loro”, perché hai deciso di costruirti un’altra vita, perché volevi sentirti libera.
Non tutte le donne provano la vergogna, la disperazione di essere picchiate. Ma statisticamente nella loro cerchia di amiche qualcuna tocca da vicina quel dolore almeno una volta nella vita. Ed è una sofferenza così forte, così difficile da condividere che, quando lo si fa, il dolore pervade tutte. Non si alleggerisce il peso di quella botta, si condivide ma non diventa meno pesante, si allarga permeando la mente di chi ascolta un’amica vittima di violenza. Per i giorni successivi non riesci a pensare ad altro se non che una persona a cui vuoi bene è in pericolo, ma che al contempo tu sei inutile, non puoi fare niente per salvarla. Deve andarci lei al centro antiviolenza, se chiami la polizia nessuno viene a casa tua. Sei solo tu. Tu e la tua amica che ha condiviso quel peso insopportabile con te.
L’atto violento contro le donne non è frutto di un raptus, non è compiuto da una persona malata, affetta da patologie mentali, né da un mostro. È attuata da un uomo. Un uomo qualsiasi, un cugino, un fratello, un amico, un padre. Non dipende dalla classe sociale, dal Paese in cui si nasce, dal titolo di studio che si ottiene o dall’età. E il femminicidio di Giulia Cecchettin ne è la prova. Non basta studiare, non basta nascere in Italia da una buona famiglia, non basta essere giovani. Si può uccidere comunque.
La violenza è la diretta conseguenza del patriarcato che ognuno, donne e uomini, hanno inconsapevolmente interiorizzato e che, ancora più inconsapevolmente, continuiamo a tramandare. Dire a una donna che il suo posto è in cucina, limitarle l’accesso al conto in banca, impedirle di vestirsi o truccarsi come vuole, pensare che spettino a lei tutte le faccende domestiche, che lei è l’unica a dover accudire i figli. Queste sono tutte espressioni del patriarcato. Nessuno è immune.
La violenza ha radici profonde, difficili da individuare. È un connubio di molteplici fattori: famiglia, scuola, amici, cultura, società, intenzione personale. Questo non significa che siano impossibili da sradicare, che non si debba agire solo perché il percorso è troppo lungo da compiere. Ma anzi, proprio perché l’obiettivo da raggiungere è lontano bisogna agire subito, cercando di insegnare, in particolare alle nuove generazioni, la cultura del rispetto, dell’autodeterminazione e del dialogo.
In Italia, ogni giorno 85 donne sono vittime di maltrattamenti, stalking o violenza sessuale. Il numero delle vittime di sesso femminile è quattro volte superiore rispetto a quello delle vittime di sesso maschile. Sono i dati della Polizia di Stato pubblicati nella brochure “Questo non è amore” e indicano la pervasività del problema. Vuol dire più di 31mila donne l’anno, e poi ci sono tutte quelle che non denunciano. Proviamo ora, di fronte a questi numeri, a dire che la violenza non riguarda tutti e tutte.
Nel 2023 non si dovrebbe più avere paura di morire ammazzate, eppure i femminicidi quest’anno sono stati 107. Ma aumenteranno perché non basta che le donne scendano in piazza, non bastano articoli sui giornali e interventi in televisione o lo scalpore conseguente a qualche femminicidio particolarmente violento. Le donne continuano a essere picchiate, limitate, insultate e uccise. Tra pochi giorni qualcuna si aggiungerà alla lista e noi scenderemo nuovamente a gridare che vogliamo sia l’ultima. Ma non lo sarà. Non lo sarà perché lo Stato agisce sulla repressione e non sulla prevenzione, perché gli uomini in media dicono che il problema non li riguarda, che loro non farebbero mai del male a una donna. Eppure, le donne continuano a morire, a essere picchiate, insultate per strada, sessualizzate e limitate sul posto di lavoro. Ma tutti giurano che, davvero, loro non potrebbero mai fare del male.
Siamo stanche di sentire storie delle nostre amiche che raccontano di aver ricevuto uno schiaffo. “Ma è successo solo una volta e comunque poi mi ha chiesto scusa”, si dice solitamente. Siamo stufe di quelle scuse. Siamo stufe di cercare di tirare fuori amiche da relazioni con uomini maltrattanti. E la colpa non è delle donne. No. La colpa è di chi quello schiaffo lo tira, di chi quella scelta la impone, di chi quel giudizio lo prescrive. Le donne sono le vittime di questa situazione. Non se la sono cercata, non dovevano stare più attente, non dovevano coprire le gambe o bere un bicchiere di vino in meno. La colpa è di chi continua a ripulirsi la coscienza aggrappandosi a queste scuse abiette. Ma la colpa è anche degli amici che conoscono la situazione e non fanno nulla per fermare l’amico violento, possessivo, asfissiante, invadente, maniaco del controllo, geloso.
Centosette donne uccise. Centosette donne uccise “ma comunque si amavano, lui le faceva anche i biscotti”. Siamo stufe di chi, comunque, dice di vedere amore dove invece c’è solo prepotenza, aggressività, cultura del potere e del possesso. Siamo stufe di avere paura, di sentirci dire che “se ti metti la gonna corta vedi che poi il lupo lo trovi”, di non sentirci libere di chiudere una relazione perché minacciate di farvi del male o di farci del male. Siamo stufe di essere “il grido, altissimo e feroce, di tutte quelle donne che più non hanno voce”. Siamo stufe di aver paura di essere ammazzate da chi non accetta di vederci libere.