Carenza di personale e stipendi non in linea con la maggior parte dei Paesi europei sono solo due dei tanti problemi che devono affrontare gli infermieri nella sanità pubblica cuneese e, più in generale, piemontese. In Italia la paga non è differenziata in base alla regione in cui si vive, “gli operatori sanitari che arrivano dal sud spesso tornano a casa loro perché lo stipendio che riceverebbero in Piemonte è praticamente uguale a quello che potrebbero avere anche lì, ma il costo della vita è profondamente diverso”, dice Claudio Delli Carri, segretario regionale del sindacato Nursing Up.
Oltre a un fuggi-fuggi verso altre regioni, nel cuneese e in altre zone del Piemonte c’è il problema dei transfrontalieri. “Un infermiere in Svizzera part time prende almeno cinquemila euro. C’è un grave problema di licenziamento dalla sanità pubblica per andare a lavorare lì o in Francia, dove le condizioni di lavoro sono migliori”.
Il settore è afflitto da una serie di problematiche concatenate tra loro che lo fanno risultare poco attrattivo. Quest’anno all’università “c’è stato un accesso inferiore rispetto ai posti a disposizione”. Sicuramente su questa scelta incide anche la prospettiva di uno stipendio non adeguato al carico di lavoro. E le ripercussioni di questa tendenza saranno evidenti soprattutto nei prossimi anni, anche perché “le richieste sono aumentate, i pazienti sono sempre di più e sempre più anziani, quindi la maggior parte delle volte pluripatologici”. La tipologia di paziente è cambiata nel corso del tempo e, di conseguenza, si è modificata la modalità di lavoro perché viene richiesta una maggiore specializzazione degli operatori sanitari.
Oltre a invecchiare i pazienti, invecchia anche il personale. “Immaginiamo un infermiere che si laurea tra i 22 e 25 anni e che deve lavorare 42 anni. Quando arriva a una certa età, soprattutto negli ultimi cinque o dieci anni, sarà molto usurato. Questo è un lavoro logorante e quindi aumentano le limitazioni, con una conseguenza diretta su tutta la distribuzione delle attività, senza tralasciare che il carico di lavoro è aumentato negli ultimi anni”.
Un problema ulteriore riguarda la lentezza delle politiche assunzionali. “Queste politiche devono essere fatte con strategia, nell’ottica di tenere il personale il più possibile e di assumerlo velocemente, soprattutto gli infermieri appena usciti dalle scuole”, aggiunge Delli Carri. A differenza di altri settori, infatti, i tempi per entrare nel pubblico sono molto dilatati.
Qualche soluzione ci sarebbe, bisognerebbe “usare le prestazioni aggiuntive in modo corretto. È un modo per premiare chi è rimasto nel sistema”. Si tratta di quelle prestazioni che vanno a integrare le attività ordinarie e che hanno il fine di ridurre le liste di attesa, facendo fronte al temporaneo aumento di mole di lavoro. L’adeguamento delle tariffe delle prestazioni aggiuntive non può essere l’unica soluzione, ma sarebbe un piccolo riconoscimento a chi cercare di sopperire alla carenza di personale.
Qualche passo in avanti nel tempo si è fatto. La recente trattativa dei sindacati con l’Asl Cn1 relativa all’uso dei fondi residui degli anni 2021-2022 e dei fondi dell’anno corrente garantiscono una tantum di 700 euro per tutto il personale, l’incremento della retribuzione per l’incarico di funzione di base, della pronta disponibilità, dell’indennità notturna e delle premialità per il quinquennio dal 2023 al 2027. “Si tratta di politiche fatte precedentemente, è stato un traguardo significativo per il settore”.
Ma bisogna fare di più perché il problema della sanità cuneese, piemontese, ma anche nazionale è strutturale e non può essere risolto con un unico intervento. Oggi ci sarà la riunione dell’Osservatorio sul personale sanitario e sono previste duemila nuove assunzioni. È un piano che, si legge sul sito della Regione, “dopo quindici anni di tagli e assenza di investimenti strutturali sul personale della sanità pubblica, segna per il Piemonte una storica inversione di tendenza, risultato di un inedito, serio e complesso lavoro di coordinamento e collaborazione tra tutti i soggetti che compongono il servizio sanitario regionale”.
Per cambiare la situazione si può agire a medio termine, facendo in modo che il personale infermieristico non scappi dagli ospedali. “Circa centomila operatori sono andati fuori dall’Italia e si saranno costruiti la loro vita. Quanti rientrerebbero se proponessimo condizioni migliori? Bisognerebbe ragionare cercando di rispondere alla domanda: cosa mi dai per rimanere?”. Ma c’è bisogno anche e soprattutto di interventi a lungo termine per garantire un lavoro dignitoso a quelli che abbiamo chiamato “gli eroi dei Covid” e per offrire una risposta adeguata alle necessità del presente e del futuro. È una questione che riguarda loro, ma che riguarda più in generale la totalità del settore della sanità e che, quindi, tocca tutti noi da vicino.