L’Italia ai tempi del coronavirus, per dirla con un refrain che, seppur vecchio di soli due giorni ha già stancato, non è solo il paese della solidarietà e della mobilitazione nei confronti dei più deboli, ma anche quello dell’ipocrisia. Premettiamo che non scriviamo queste righe per iscriverci nella categoria dei ‘mai cuntent’. Anche noi, su
Cuneodice.it, abbiamo raccontato i tanti esempi positivi, dai giovani che si rendono disponibili per portare la spesa e i beni di prima necessità ai nostri anziani, fino alle tante donazioni che sono pervenute alle Asl e agli ospedali. Non è però possibile, anche nell’informazione da libro cuore che tanto piace a chi è costretto a restare a casa e già deve sopportare la moglie e magari, nei casi estremi, pure la suocera, e non vuole farsi carico di altri problemi, tacere ancora su quanto sta avvenendo nei nostri ospedali.
A denunciare per primo la situazione è stato il Nursing Up, il sindacato degli infermieri, che nei giorni scorsi ha denudato il re, sottolineando l’assenza totale di mascherine e di tamponi per il personale sanitario che lavora quotidianamente negli ospedali piemontesi e della provincia di Cuneo. Inequivocabilmente l’appello della corporazione non ha avuto la eco che meritava. Vuoi perché a gridare sempre ‘al lupo al lupo’, quando il lupo c’è davvero, nessuno ti crede più, vuoi perché evidentemente la retorica dell’applauso sul balcone ai medici e agli infermieri che si fanno il mazzo per tutti noi lava la coscienza, ma una volta chiusa la portafinestra si torna in cucina a finire il barattolo di nutella, inebetiti davanti a quella serie di Netflix che tanto ci piace e chi ci pensa più.
Una donazione agli ospedali è un bel modo di manifestare il proprio supporto (fatelo il più possibile n.d.r), ma chissà che nella torma di quelli che hanno devoluto 20, 50 o 100 euro, magari anche condividendo il gesto sui social “mica per far vedere che ho donato, ma per dare il buon esempio” (non è il caso di specificarlo, mica ci avremmo mai pensato), non ci sia qualcuno che quando gira tra gli scaffali del supermercato, s’imbarda con una bella mascherina FFP2 o FFP3. Quando uscite per andare a fare la spesa fateci caso.
Un paradosso? Siamo oltre. Chi combatte in prima linea per evitare il collasso di un bene prezioso come la sanità pubblica è sprovvisto di ogni protezione (oppure, in molti casi, gli viene data una FFP1), mentre chi mette nel carrello zucchero e caffè sembra un astronauta. Ancora oggi, in alcuni reparti degli ospedali sono circolati dispositivi di protezione più simili a carta igienica che a una mascherina (non pubblichiamo le foto a tutela dei dipendenti). Sarebbe grave, per tutte le conseguenze del caso, se nei prossimi giorni arrivasse la notizia che un intero reparto è stato contagiato da covid-19, personale compreso.
Non è il tempo delle polemiche, ma di remare uniti per il bene del paese. Ed è proprio per questo che, visto che siamo tutti sulla stessa barca, qualcuno dovrà spiegarci come mai vengono fatti tamponi a soggetti asintomatici (vedi politici e calciatori) che hanno il solo merito di avere un tiramento, e in alcuni casi manco quello, mentre mancano per gli operatori sanitari che sono venuti a contatto con persone sicuramente contagiate. Lo abbiamo detto, domani dovranno renderne conto, mentre la priorità dell’oggi è che chi ha il potere di fare qualcosa lo faccia e rapidamente, in quanto il rischio di collasso è dietro l’angolo. L’appello che possiamo fare a chi è in possesso di mascherine FFP3 è quello di donarle ai conoscenti e non che fanno i medici o gli infermieri: per fare la spesa non servono a niente, è sufficiente mantenere le distanze, mentre per chi lavora nei nostri ospedali sono fondamentali. Gli applausi vanno bene, ma i supporti concreti (lo ripetiamo, donazioni comprese), vanno sicuramente meglio.