Pubblichiamo integralmente l'intervento di Sergio Soave, presidente dell'Istituto Storico della Resistenza di Cuneo, al Teatro Toselli in occasione della visita del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per il 25 aprile.
Signor presidente della Repubblica, signore e signori,
Come mi è stato richiesto, mi limiterò in questa breve introduzione a sottolineare alcuni motivi peculiari e in parte unici della storia della resistenza cuneese. Intanto, immediatamente occupata da truppe naziste, arrivate a Cuneo l'11 settembre '43, la provincia fu in grado di offrire fin da subito una prospettiva di salvezza che non fosse l'immediata cattura a quei militari delle caserme, nonché agli sbandati della 4^ Armata in fuga apocalittica dalla Francia impossibilitati a raggiungere le loro troppo lontane famiglie. E ciò avvenne qua e là per opera di comandanti ispirati, ma, a Cuneo, grazie a un lavoro preparatorio che Duccio Galimberti aveva perseguito fin dal 25 luglio, in coerenza con la percezione anticipata degli eventi che aveva subito espresso. A differenza di chi, sui giornali dell'epoca, individuava soluzioni consolatorie Duccio era stato chiaro. Salito sul balcone del suo studio affacciato alla piazza che ora porta il suo nome, di fronte a una folla che sperava di sentirsi dire che, con la caduta di Mussolini, sarebbe finita la guerra, il giovane avvocato ammonì perentoriamente – tra il mormorio stupito e la perplessita degli astanti - di non farsi illusioni: la guerra sarebbe finita solo dopo la cacciata dal Paese dell'ultimo dei nazisti e dei fascisti, ciò che indicava implicitamente il compito inevitabile e assai gravoso a cui ciascuno avrebbe dovuto predisporsi in quella che si prefigurava come una guerra di liberazione, ma che inevitabilmente avvrebbe assunto i tratti di una guerra civile. Per parte sua, anzi, senza perdere tempo e con il prezioso aiuto di Dante Livio Bianco pochi amici, aveva già cercato di preparare una risposta degna e fu così in grado di raccogliere i primi nuclei di resistenza armata a Madonna del Colletto, nelle vallate a ovest del capoluogo a pochi giorni dall'armistizio.
Non era solo, perchè contemporaneamente e con eguale tempestività, a Barge si radunò con Pompeo Colaianni un primo drappello partigiano, mentre a est della città di Cuneo, sui colli di Boves, lo stesso avvenne per impulso di un giovane e carismatico ufficiale, Ignazio Vian. E fu qui che prese corpo un tragico primato italiano perché proprio a Boves avvenne la prima strage nazista di una popolazione civile che si ricordi (a Meina, sul Lago maggiore, analoga strage fu incentrata sulla caccia all'ebreo). I fatti li conosciamo: la cattura di due tedeschi da parte della piccola banda delle colline bovesane, la trattativa con il maggiore Joachim Paiper che vuole i due prigionieri in cambio della salvezza del paese, i prigionieri restituiti, il tradimento della parola data da parte nazista e l'incendio della città (350 case bruciate e 25 civili uccisi compreso parroco e vice parroco). La lezione di quella strage non poteva essere più chiara: al di là della barbarie e dell'abisso morale brutalmente ostentato, i tedeschi vollero comunicare in un solo giorno a tutta l'Italia occupata la loro legge: colpire la popolazione civile per far capire che non era tollerabile alcun sostegno a chi si opponeva ai loro comandi. Ciò che si ripetè tristemente, nei soli 4 mesi successivi, con le analoghe stragi di Bagnolo, Ceretto, Dronero, Peveragno e di nuovo, con più del doppio di morti, a Boves, città davvero prima martire della Resistenza italiana.
Altri elementi di specificità virtuosa sono riscontrabili nello sviluppo successivo della Resistenza: intanto Gl, Garibaldini e Autonomi garantirono progressivamente una copertura territoriale diffusa, ciò che non era né facile, né scontato in una provincia più estesa della regione Liguria e che contava 252 comuni (dei quali solo 6 sopra i 10.000 abitanti) e un migliaio di frazioni.
Forte di questa consistenza e grazie a un Galimberti ormai diventato membro autorevole del CMRP, si riuscì a vincere la diffidenza del maquis francese, siglando gli accordi di Barcellonette e Saretto, alla base dei quali è posta la necessità del superamento dei nazionalismi per addivenire a un ordine europeo condiviso. Piccolo capolavoro di “politica estera” e altro primato di cui non troviamo analogo esempio. Sul piano dei rapporti interni, riconosciuto il merito di GL e Garibaldini, è infine da sottolineare la capacità di penetrazione delle formazioni che si definivano autonome, sia che fossero tendenzialmente badogliane e monarchiche (le divisioni del maggiore Martini Mauri), sia che propendessero per una scelta repubblicana e di Rinnovamento (quelle di Piero Cosa e di Dino Giacosa che più di altri seppero inserire in ruoli chiave anche molte e straordinarie figure femminili). Tali formazioni si diffusero, in un territorio “aperto” e che non permetteva vie naturali di fuga, tra Cuneo, il Monregalese, Alba, Bra e propaggini astigiane, fino a costituire un blocco che numericamente e politicamente (e questo è un ulteriore primato) non è dato rinvenire in nessuna altra parte del pur vasto fronte resistenziale italiano.
Sul motivi della loro fortuna, e al di là del più disponibile sostegno alleato, ha una sua credibilità l'ipotesi che esse riflettessero meglio di quelle cosidette “politiche”, il comune sentire di una popolazione più incline a rimandare al dopo altra scelta che non fosse quella di liberarsi intanto da nazisti e fascisti e comunque a evitare soluzioni future giudicate troppo innovative o “rivoluzionarie”. Il che si sarebbe poi meglio compreso con le prime elezioni del '46, dove il voto per la monarchia fu ben superiore a quello della Repubblica (56% e altro, questa volta discusso, primato), mentre alle elezioni per la Costituente, i favori andarono a una DC che ottenne il 46% dei consensi, con i socialisti al 20%, un Partito dei contadini al 10%, un PCI sotto l'8%, e un PdA fermo al 3,73. Da allora, la provincia fu considerata “provincia bianca”.
Al proposito, andrebbe notato che su quel risultato referendario un certo peso lo aveva avuto la scelta monarchica pubblicamente espressa dal cuneese Luigi Einaudi che, due anni dopo, sarebbe stato eletto Presidente della Repubblica. Paradossi della storia - si dirà - ma scelta rivelatasi saggia da parte di un ceto politico che, alla prima prova del nuovo istituto, previsto dalla Costituzione, pensò a una figura di riconciliazione e coesione nazionale. Balsamo per un Paese che doveva superare lacerazioni politiche profonde e ai primi passi della costruzione di una democrazia nella quale tutti, a poco a poco, potessero alfine
riconoscersi!
Mi permetta da ultimo di aggiungere, signor Presidente un dato che riguarda più da vicino: nelle file della Resistenza cuneese e piemontese, tra i 6 mila giovani provenienti dalle regioni del Sud, ben 2191 venivano dalla sua Sicilia e sono tre i siciliani che, restringendo lo spettro della ricerca alla nostra provincia, annoveriamo tra i più prestigiosi capi di brigate o divisioni importanti: Pompeo Colajanni (Barbato) nativo di Caltanisetta, figura centrale della Resistenza cuneese, Ufficiale di cavalleria a Pinerolo, che partito da Barge, ebbe affidato il comando della 1^ Divisione Garibaldi e poi la responsabilità della VIII zona partigiana piemontese. Luigi Scimè (Gigi), nato a Racalmuto, sottotenente di artiglieria inviato a Fossano il 6 settembre 1943. Dileguatosi il suo comandante, mandò in licenza i suoi soldati provvedendo poi a nasconderli nelle cascine della campagna cuneese, attorno a S. Albano. Fatta la scelta del partigianato nelle formazioni autonome di Rinnovamento della brigata Valle Pesio, dal gennaio '45, gli sarà affidato il comando della V^ divisione autonoma “Alpi Mondovì. Liberatore della città, verrà insignito di medaglia d'argento al valor militare. Vincenzo Modica (Petralia), nato a Mazara del Vallo (e qui ci avviciniamo ai luoghi della sua giovinezza), braccio destro di Barbato e a sua volta Comandante di divisione, a cui verrà affidata la bandiera del CLN, alla testa del corteo che il 6 maggio 1945, sfilerà a Torino davanti alla popolazione e ai comandi alleati.
Ai tre, molti altri sarebbero da aggiungere, ma proprio in omaggio a lei, signor Presidente, ne voglio ricordare uno in particolare (segnalatomi dal prof. Salzotti, decano del nostro Istituto storico della Resistenza Dante Livio Bianco). Si tratta di Gaspare Santoro, di Alcamo, allievo, negli anni '30, di quel liceo privato “Giuseppe Ferro”, già frequentato da suo padre, anni prima. Tra quelle mura, il nome di Bernardo Mattarella, antifascista della prima ora, amico di Sturzo, presidente dell'Aci palermitana e membro, negli anni '30, del Consiglio superiore di Gioventù cattolica, non poteva essergli sconosciuto, se non altro per quei bisbigli a bassa voce che gli giungevano da alcuni probi professori e maestri. Diventato ufficiale dei carabinieri, Santoro fu mandato in Grecia nel '42 e qui, catturato dai tedeschi dopo l'8 settembre, rifiutò di rientrare al servizio della RSI, subendo la dura sorte che toccò a tutti gli internati militari italiani che solo in questi anni la critica storica ha preso a rivalutare come autentici, primissimi eroi di un antifascismo istintivo e che, infatti, i nazisti cercarono di fiaccare con un regime di detenzione particolarmente efferato. Nell'aprile del '44, fingendo di cedere alle lusinghe del nuovo regime, Santoro rientrò in Italia e, assegnato alla tenenza dei carabinieri di Torino Borgo Dora, si diede alla macchia raggiungendo i partigiani della brigata “Val Grana”, dove subito si distinse, con il nuovo nome di Nick, tanto che a lui venne affidata, nel dicembre '44, l'operazione “discesa in pianura” a Monchiero. Qui, nominato Capo della polizia divisionale della regione PreLanghe, coordinò nella primavera del '45 coraggiose imprese, ma a un mese dalla Liberazione fu tradito da un ex partigiano che all'albergo del Vecchio commercio, reiterando il gesto di Giuda, lo indicò con un abbraccio ai fascisti che lo aggredirono con inusitata violenza. A nulla valse il ricovero all'Ospedale civile di Benevagienna dove trovò infine la morte. Ma se è vero che nel passaggio finale si rimemora la vita in un attimo, quel liceo di Alcamo che lo accomuna a suo padre e alla sua famiglia, sarà certamente affiorato nel lampo del suo ultimo ricordo. Insomma, signor Presidente, grazie per la sua significativa presenza qui, in questo particolare 25 aprile. Essa alimenta di per sé quel fuoco che si evoca da noi nel popolare detto “Cuneo brucia ancora” e rafforzerà la volonta' di tutti coloro che sentono il dovere di trasmettere alle giovani generazioni l'epopea e il senso di un tempo in cui donne e uomini si batterono a rischio della vita per darci quella libertà di cui talora, oggi, sembra che si dimentichi l'essenziale valore.
Sergio Soave
Presidente dell'Istituto Storico della Resistenza di Cuneo