A vederle sul palco di un piccolo teatro, mentre si tengono strette per mano, sembrano due vecchie amiche. Difficile credere invece che una abbia avuto una parte significativa nelle vicende che portarono all’omicidio del padre dell’altra, più di quarant’anni fa, in un’altra vita. Perché quelle due donne sono Adriana Faranda e Agnese Moro, la brigatista rossa e la figlia del presidente democristiano rapito in via Fani, tenuto prigioniero per 55 giorni e ucciso con una sventagliata di mitra.
A intervistarle c’è Marta Cartabia, ex ministro della giustizia e prima ancora presidente della Corte Costituzionale, nell’ambito di una serata organizzata al teatro Garelli di Villanova Mondovì. Si parla di “giustizia riparativa”, l’idea cioè che il reato non sia un’azione ma l’inizio di un processo, al termine del quale si dovrà porre rimedio - per quanto possibile - alla sofferenza che le vittime hanno patito. In Italia se ne discute da pochi anni e solo con la riforma Cartabia si è delineata una cornice normativa. Tutto nasce, spiega l’ex guardasigilli, da un volume regalatole quando era giudice costituzionale, “Il libro dell’incontro”, dedicato appunto al tema dei colloqui tra vittime e protagonisti della lotta armata.
Quello tra la Faranda e la Moro è stato un processo di avvicinamento incominciato una quindicina di anni fa, con la mediazione di padre Guido Bertagna, e portato avanti per lungo tempo. Le due donne ne parlano, senza mai menzionare la parola “perdono”, come di un atto dovuto innanzitutto a loro stesse. Per l’ex terrorista c’era la necessità di superare la semplice espiazione carceraria, dove “si risarcisce in maniera astratta lo Stato ma non c’è nessun rapporto con le persone che sono state coinvolte nelle proprie azioni”: “Dovevo chiudere il cerchio della mia vita ritornando a cercare le persone che avevo ferito, dovevo ricucire anche me stessa e potevo farlo soltanto con il loro aiuto”. Per la sua interlocutrice, l’urgenza era di liberarsi della condizione di vittima, di un dolore cristallizzato nel tempo: “In trent’anni nessuno mi aveva mai chiesto: come stai? Soffri? Per me è stata una cosa incredibile che qualcuno si interessasse di questo dolore che urla”.
Il cammino di riconciliazione, con la propria memoria e non solo, non è stato semplice come un abbraccio a favor di telecamere: “La giustizia riparativa non è un volemose bene, lì si ascoltano parole su tutto ciò che di terribile ci può essere nell’umanità delle persone, le une e le altre allo stesso modo” avverte la Moro. A frenarla, spiega, non era il timore di tradire la memoria di suo padre: “Non l’ho mai pensato, lui aveva una radicale fiducia nella possibilità di dialogare con chiunque e sono certa che sia stato molto dispiaciuto per questi ragazzi, che hanno fatto cose così gravi. Ma ho avuto timore di offendere la mia famiglia, di creare altri dolori e altri dispiaceri: sapevo di tradire sicuramente la mia categoria, quella delle vittime”. La sera prima di iniziare gli incontri, ha rivelato, aveva voluto rileggere il referto dell’autopsia eseguita sul corpo di suo padre, proprio per essere certa di non dimenticare: “Per me è stato importantissimo poterli rimproverare di non averci dato le lettere che mio padre aveva scritto per ognuno di noi, per salutarci: quale poteva essere la motivazione strategica, politica?”. “Non avrei potuto rispondere - replica la Faranda - perché non ho mai visto quelle lettere. Ma non è questo il problema: la domanda ti mette davanti alla spietatezza che hai avuto”.
Ciò che più colpisce l’ascoltatore è sentir parlare di vicende che hanno segnato la storia recente dell’Italia come di fatti privati, sottratti per un momento al dominio della politica. Aldo Moro ridiventa “il papà di Agnese” per una delle militanti che ne pianificarono il sequestro, pur opponendosi all’esecuzione. “Scegliendo di introdurre la violenza nel conflitto politico, - spiega - avevamo rescisso un legame con la nostra comunità di appartenenza. A quei tempi non era difficile perché quella società non solo era impregnata di violenza ma aveva in sé forti connotati manicheisti, come ce ne sono ancora oggi”. La figlia del politico democristiano si spinge oltre nel teorizzare una responsabilità collettiva: “In quegli anni predicare la giustizia e l’eticità della violenza non era esclusiva delle Br o dell’estrema destra, succedeva anche in un certo mondo cattolico. Non era per niente scontato affermare che la politica si fa con le parole e non sparando alle persone: abbiamo avuto fior fiore di intellettuali, di insegnanti che si sono schierati a favore della lotta armata. Di questo ce ne siamo completamente dimenticati”.
Se il sangue è stato versato, ci si può chiedere, cosa è lecito sperare di “riparare”? “Per quanto riguarda noi - risponde la ex “compagna Alexandra” - si può trasformare la colpa in responsabilità piena, mentre il carcere ti insegna che tu sei un reato e quindi una colpa: la responsabilità è il prendersi cura. Andando a casa di Agnese, mi sono sentita spinta dalla curiosità di conoscere un uomo che noi non avevamo in realtà mai conosciuto, se non per le sue dichiarazioni pubbliche: continuavo a pensare ‘se fossi riuscita a parlare con lui, avrei fatto le stesse scelte?’”. “Dopo la morte di mio padre - racconta la Moro - per me è stato molto doloroso anche solo guardare le foto di famiglia, pensare alla vita che comunque per venticinque anni avevo vissuto con lui: per me tutte quelle foto erano macchiate di sangue. Invece ora non vedo più quel sangue. Credetemi, non è poco”.