DOGLIANI - Barolo prodotto fuori dall’area di origine: a processo due imprenditori di Dogliani

Orlando Pecchenino, già presidente del consorzio di tutela, deve rispondere di tentata frode in commercio e falso assieme al fratello Attilio

a.c. 27/11/2019 20:16

 
I confini possono essere invalicabili, non solo quando si parla di Stati. Ne sono al corrente i produttori di vini delle Langhe, che per definire ‘a denominazione di origine controllata e garantita’ il frutto delle loro uve devono rispettare rigide norme: tra le regole inviolabili, c’è quella di vinificare nell’area stabilita dal disciplinare. Perfino se tra il confine della zona di origine e la propria cantina passano a malapena trecento metri, come è il caso dell’azienda agricola Pecchenino di Dogliani.
 
Orlando Pecchenino, presidente del consorzio di tutela del Barolo e del Barbaresco fino allo scorso anno, è un nome noto della viticoltura cuneese. Insieme al fratello Attilio era finito nel 2016 al centro di un’indagine dei Nas per tentata frode in commercio e falso: i Carabinieri contestavano ai due imprenditori di aver prodotto centinaia di ettolitri di Barolo docg per le annate 2013, 2014 e 2015 fuori dall’area indicata dal disciplinare. A norma di legge, infatti, per poter definire le loro bottiglie Barolo docg anziché Langhe Nebbiolo doc avrebbero dovuto vinificare nella cantina di Monforte d’Alba anziché in quella di Dogliani, dove secondo gli inquirenti erano state effettuate le varie operazioni di trasformazione delle uve.
 
Il procedimento si era concluso con il patteggiamento davanti al gip di Asti: una scelta obbligata, secondo le difese, per poter salvare la produzione di tre annate finita sotto sequestro. Ora però si è aperto un secondo capitolo della vicenda giudiziaria, questa volta davanti al Tribunale di Cuneo dove i Pecchenino devono rispondere degli stessi reati per quanto riguarda le annate comprese fra il 2005 e il 2012. Questa volta i due fratelli, assistiti dagli avvocati Luisa Pesce e Fabrizio Mignano, sono decisi a difendersi dalle accuse mosse dal pubblico ministero Attilio Offman. Nell’ultima udienza sono stati ascoltati i primi testi della difesa, tra cui un amico americano dei Pecchenino che ha confermato di aver visitato più volte entrambe le cantine ma di aver assaggiato il barolo conservato in botte solo in quella di Monforte.
 
È stata quindi la volta dei consulenti enologici Vittorio Portinari e Paolo Terzuolo, i quali hanno cercato di ‘smontare’ la perizia della Procura. Gli esperti della difesa hanno smentito, in primo luogo, che la cantina di Monforte fosse inadatta perché le varie fasi della vinificazione e l’invecchiamento si svolgevano in un ambiente unico: “Solo chi realizza una cantina nuova può permettersi di tenere gli ambienti separati, non certo chi gestisce una cantina vecchia con spazi ristretti come i Pecchenino a Monforte. Tre quarti delle cantine piemontesi sono nella stessa situazione”.
 
Gran parte della contesa verte sul sistema utilizzato per la vinificazione: le difese sostengono che questa avvenisse attraverso il metodo dello ‘sgrondo statico’ anziché con la normale pressatura, mentre l’accusa esclude questa possibilità. Portinari e Terzuolo hanno rilevato che “lo sgrondo statico è una pratica usuale in aziende di dimensioni ridotte e coerente con la volontà dei Pecchenino di ottenere un minore quantitativo di feccia da smaltire”. Quanto al fatto che la produzione di vinacce fosse troppo esigua per ipotizzare lo sgrondo statico, come ha obiettato il consulente dell’accusa, occorrerebbe tenere presente che “la quantità di vinacce varia a seconda delle vendemmie, alla maturazione e al succo contenuto negli acini”. Altro elemento di scontro tra le difese e la Procura riguarda la quantità di acqua consumata dalla cantina di Monforte: troppo poca per quel tipo di produzione, secondo l’accusa. Niente affatto, ribatte la difesa: “Il consumo di acqua varia in base alle uve. Un’azienda che produce moscato avrà consumi molto superiori a quelli di chi realizza il barolo: impossibile rifarsi a un dato ‘medio’”.
 
Il pm ha incalzato i periti di parte anche sullo smaltimento dei raspi (“non sono trattati come rifiuti”, la risposta) e ha rilevato un’incongruenza tra quanto sarebbe accaduto nell’annata 2016 rispetto a quelle subito precedenti: “Se l’organizzazione dell’azienda Pecchenino gli avrebbe permesso di vinificare all’interno della cantina di Monforte, perché a un certo punto è stata abbandonata?”.

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