L’hanno chiamata operazione “Iron Rod”, barra di ferro, prendendo spunto dall’arnese con cui in un video si vede uno degli indagati pestare un bracciante: il malcapitato aveva avuto il “torto” di chiedere condizioni di lavoro più dignitose, rispetto ai turni da dieci o quindici ore giornaliere, con una paga da fame, a cui erano costretti lui e i suoi colleghi.
Sullo sfondo del filmato, girato con un telefonino, si vedono gli splendidi filari delle Langhe di Neive. Paesaggi da cartolina, gli stessi in cui i turisti approdano alla domenica per “instagrammarsi”, tenendo in mano un bicchiere di Barolo. Tre persone, un marocchino, un macedone e un albanese, sono indagate per il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (il cosiddetto caporalato), oltre che per violazione della normativa sull’immigrazione. Per i primi due, all’esito delle indagini condotte per un anno dalla Squadra Mobile della Questura di Cuneo, sono scattati gli arresti domiciliari. Per il terzo, la cui posizione è meno grave, c’è il divieto temporaneo di esercitare attività professionali: tutti e tre gli indagati sono immigrati regolari, con qualche precedente penale, domiciliati a Mango, Novello e Alba.
In almeno un caso, quello del macedone, più che di un “caporale” in senso stretto si può parlare di un “padroncino”: “Era già a un livello superiore, gestiva anche l’accoglienza” spiega il questore Carmine Rocco Grassi. In un caseggiato di sua proprietà a Mango, dove l’uomo vive insieme alla compagna, i poliziotti hanno trovato stipati 19 braccianti: tutti immigrati, quasi tutti extracomunitari e irregolari. Vivevano in condizioni igieniche indecorose, ma pagavano un affitto al loro “padrone di casa”. Soldi decurtati da una paga già misera: tre o quattro euro all’ora, in totale 500 o 600 euro al mese. Quando gli agenti hanno perquisito la cascina hanno trovato sedicimila euro in contanti, nascosti nei cuscini e in una custodia per occhiali, piazzata dietro a un mobile: “Tutti hanno soldi in casa” si è giustificato il proprietario. È emerso anche che il macedone teneva d’occhio i suoi “inquilini” con un efficientissimo sistema di videosorveglianza, collegato a una app installata sul telefonino: una vigilanza da Grande Fratello, sui campi come in stanza.
L’aspetto peculiare della vicenda è che si tratta di tre indagini separate, nate da segnalazioni raccolte tramite i sindacati e le associazioni di volontariato che assistono i braccianti stranieri. Un segnale rilevante, secondo la Questura, perché dimostra la pervasività del “sistema” nelle Langhe dei grandi vini: dove non c’è un’organizzazione criminale da sgominare, ma tante sacche di sopraffazione. A carico di uno degli indagati, il marocchino, pesano come si diceva anche vere e proprie aggressioni fisiche, filmate in diretta.
Comune ai tre, oltre al modus operandi, era il punto di ritrovo. I braccianti dovevano farsi trovare nelle prime ore del mattino davanti alla stazione di Alba. Da lì venivano distribuiti nelle campagne tra Farigliano, Neive, Castiglione Tinella, Monforte d’Alba: “Sono interessate tutte le aree della vendemmia, dai moscati ai nebbioli” fa sapere il dirigente della Mobile Giancarlo Floris. Aziende che producono vini pregiati, dunque, e che almeno in qualche misura non potevano non sapere: “Ci sono comunque aspetti sintomatici - commenta il procuratore capo di Asti, Biagio Mazzeo - nel momento in cui la giornata lavorativa dura 10 o 12 ore: è evidente che in quel caso siamo fuori dal perimetro della legalità”.
“La nostra prospettiva - conferma il questore Grassi - si deve spostare ora su chi, non preoccupandosi delle condizioni di assunzione, si affida a cooperative o a soggetti come questi, pensando di potersi lavare le mani”. Non è la prima volta che succede: solo pochi giorni fa, una serie di controlli dei carabinieri e dell’ispettorato del lavoro, condotti a livello nazionale in seguito alla morte di Satnam Singh, hanno portato a due denunce per caporalato, sempre nelle Langhe. La ex terra della “malora” è la nuova frontiera della lotta allo sfruttamento del lavoro agricolo, dopo che negli anni scorsi i riflettori si erano accesi sul distretto della frutta di Saluzzo, con l’operazione “Momo” e il primo processo per caporalato tenutosi a Cuneo: “L’attenzione si è spostata sul fenomeno del sommerso. Non è pensabile che il problema riguardi solo Saluzzo e questa indagine, come altre nel passato, lo dimostrano”.
Sono una cinquantina i lavoratori che gli inquirenti sono riusciti a identificare: vengono perlopiù dall’Africa, in particolare Gambia, Guinea, Nigeria, Marocco, Egitto, Senegal, Mali, Burkina Faso, Costa d’Avorio. Ma anche da Albania e Romania. Qualcuno dei braccianti, dopo aver collaborato con chi svolgeva le indagini, ha ottenuto il permesso di soggiorno per ragioni di giustizia: “Uno strumento per noi molto importante” dice il procuratore Mazzeo.