Si chiude con un patteggiamento per tutti e tre gli accusati l’indagine per caporalato portata a termine la scorsa estate dalla Questura di Cuneo. I poliziotti l’avevano chiamata operazione “Iron Rod”, ovvero barra di ferro: è l’arnese che in un video uno dei tre indagati tiene in mano, utilizzandolo per picchiare un bracciante. Il malcapitato chiedeva condizioni di lavoro più dignitose e quella era stata la risposta.
L’uomo imputato per le violenze è il marocchino A.N., classe 1985, domiciliato a Novello: ha patteggiato una condanna a dieci mesi di reclusione e duemila euro di multa. Per lui, già gravato da precedenti penali, la pena detentiva è stata convertita in 600 ore di lavori pubblici presso il comune di residenza. Per G.C., cittadino macedone residente a Mango, classe 1981, la pena è di un anno di reclusione e 700 euro di multa con sospensione condizionale. L. M., classe 1976, albanese, residente ad Alba, ha patteggiato 8 mesi di reclusione e duemila euro di multa, anche in questo caso con sospensione condizionale della pena. Sanzioni che le difese avevano concordato con il sostituto procuratore Stefano Cotti e che il gip Claudia Beconi ha accolto nell’udienza odierna.
In almeno un caso, quello del macedone, più che di un “caporale” in senso stretto si può parlare di un “padroncino”: “Era già a un livello superiore, gestiva anche l’accoglienza” ha spiegato il questore Carmine Rocco Grassi alla conclusione delle indagini. In un caseggiato di sua proprietà a Mango, dove l’uomo vive insieme alla compagna, i poliziotti hanno trovato stipati 19 braccianti: tutti immigrati, quasi tutti extracomunitari e irregolari. Vivevano in condizioni igieniche indecorose, ma pagavano un affitto al loro “padrone di casa”.
Soldi decurtati da una paga già misera: tre o quattro euro all’ora, in totale 500 o 600 euro al mese. Quando gli agenti avevano perquisito la cascina vi avevano rinvenuto sedicimila euro in contanti, nascosti nei cuscini e in una custodia per occhiali, piazzata dietro a un mobile: “Tutti hanno soldi in casa” si è giustificato il proprietario. È emerso anche che il macedone teneva d’occhio i suoi “inquilini” con un efficientissimo sistema di videosorveglianza, collegato a una app installata sul telefonino: una vigilanza da Grande Fratello, sui campi come in stanza.
Sono una cinquantina i lavoratori che gli inquirenti sono riusciti a identificare: vengono perlopiù dall’Africa, in particolare Gambia, Guinea, Nigeria, Marocco, Egitto, Senegal, Mali, Burkina Faso, Costa d’Avorio. Ma anche da Albania e Romania. L’aspetto peculiare della vicenda è che si tratta di tre indagini separate, nate da segnalazioni raccolte tramite i sindacati e le associazioni di volontariato che assistono i braccianti stranieri. Un segnale rilevante, secondo la Questura, perché dimostra la pervasività del “sistema” nelle Langhe dei grandi vini.
Comune ai tre, oltre al modus operandi, era il punto di ritrovo. I braccianti dovevano farsi trovare nelle prime ore del mattino davanti alla stazione di Alba. Da lì venivano distribuiti nelle campagne tra Farigliano, Neive, Castiglione Tinella, Monforte d’Alba: le aree in cui si producono i vini più pregiati, venduti talvolta a prezzi esorbitanti ma pagati, in questo caso, con il sudore degli ultimi e a volte perfino con il loro sangue.