“Quando mi è stato detto che l’assegno era falso ho chiamato il numero di Giovanni. Ero davanti alla Questura e gli ho chiesto soltanto: ‘come va la macchina?’, lui mi ha risposto ‘benissimo’”: con queste parole un 41enne di origini catanesi, residente a Cuneo, ha rievocato in tribunale la
truffa subita sulla vendita di una Porsche Macan di seconda mano da parte di un sedicente “signor Giovanni”.
Tutto era cominciato pochi giorni prima, con un’altra telefonata. Quella che un uomo, qualificatosi solo come Giovanni, aveva fatto dopo aver visto su un sito internet l’annuncio relativo alla vendita dell’auto. All’appuntamento con l’inserzionista in quel di Cuneo si era recato K.T., qualificandosi come figlio del signor Giovanni e sostenendo che avrebbe saldato la cifra pattuita con un assegno circolare postale da 67500 euro. Alle perplessità del venditore, l’aspirante compratore avrebbe risposto invitandolo a verificare la validità del titolo emesso dall’ufficio postale di Vigoleno: cosa che il proprietario della Porsche aveva fatto, chiedendo alla cassiera della sua banca di contattare il numero dell’ufficio trovato su Google e sentendosi rispondere dalla voce femminile di una certa Federica che tutto era in regola.
Peccato che l’ufficio postale di Vigoleno, frazione del comune di Vernasca nel Piacentino, fosse già chiuso da un decennio nell’agosto 2018, la data a cui risalgono i fatti. L’utenza dell’ufficio, avrebbe accertato in seguito la polizia, era stata acquistata da una società che rivendeva numeri fissi dismessi a privati: la sedicente Federica, al pari del sedicente Giovanni, aveva quindi preso parte al raggiro finalizzato ad intestare e rivendere al più presto la Porsche. Quest’ultima era stata poi individuata e sequestrata alcuni giorni dopo a Varazze (Sv). Dagli accertamenti sul numero di cellulare del “signor Giovanni”, intestato a un cittadino pakistano, era stato possibile invece risalire a D.G.H., 46enne italiano di etnia sinti con numerosi precedenti penali per reati analoghi. A corroborare questi riscontri è la circostanza che le chiamate provenissero dalla zona di Castiglione Olona in provincia di Varese, dove D.G.H. risiedeva all’epoca dei fatti, e che a carico suo fosse emerso un versamento di 119 euro in favore di K.T., il presunto complice.
Tanto è bastato al pubblico ministero Gianluigi Datta per chiedere la condanna a 8 mesi di reclusione per entrambi gli imputati: a carico di K.T., cittadino italiano incensurato residente a Olgiate Olona (Va), pesavano anche le immagini acquisite dalle telecamere della banca e il riconoscimento fotografico della persona offesa. Il suo difensore, avvocato Caterina Montanari, ha rilevato tuttavia che “l’unica attività compiuta dall’imputato sarebbe di avere materialmente consegnato l’assegno e ritirato l’auto. Manca la prova del suo contributo a tutta la fase precedente, compiuta da un soggetto sconosciuto: gli accordi con la parte offesa, la comunicazione sull’ufficio postale e la richiesta di intestare in tempi rapidi la vettura”. Anche l’avvocato Giulio Magliano, per la difesa di D.G.H., ha sostenuto l’estraneità ai fatti del suo assistito: “Non è stato individuato da nessuno né con i riconoscimenti fotografici, né attraverso i tabulati telefonici. Il solo legame che lo collega a K.T. è l’aver effettuato in suo favore una ricarica Postepay da 119 euro”.
Il giudice Emanuela Dufour ha condannato il solo K.T. alla pena di 8 mesi con sospensione condizionale e 500 euro di multa, assolvendo invece D.G.H. per non aver commesso il fatto.