Accade di rado che un’indagine per spaccio di droga non parta dalla soffiata di un informatore o da un appostamento per smascherare un “giro” sospetto, bensì dalla denuncia del compratore.
È quanto accaduto nella vicenda che ha portato al processo e alla condanna di A.D.P., milanese residente a Busca, per il quale il giudice Elisabetta Meinardi ha fissato una pena di tre anni di reclusione, contro i sei richiesti dall’accusa. A rendere più complessa l’istruttoria è stata una tragica circostanza intervenuta nel frattempo: il giovane che lo aveva denunciato, su consiglio della madre, è deceduto prima che si aprisse il processo a carico dell’amico e presunto fornitore di cocaina.
In aula sono quindi stati chiamati il padre e la compagna del ragazzo, per cercare di ricostruire l’accaduto, oltre ai poliziotti che raccolsero le sue dichiarazioni in Questura. In fase di indagini gli agenti avevano monitorato i movimenti del sospettato, tramite appostamenti e analisi del cellulare, cercando di individuare anche il “grossista” della droga. “La prova - ha concluso il pubblico ministero Gianluigi Datta - è data dalle testimonianze del padre e della compagna, che confermano sia i debiti che l’acquirente aveva nei confronti dell’imputato, sia le cessioni di stupefacenti in più di un’occasione”. In un caso la convivente avrebbe anche assistito materialmente alla consegna della droga: “Il padre conferma di aver pagato le somme che il figlio doveva ancora saldare, dopo la sua morte”.
“La prova della penale responsabilità non è raggiunta a meno che non si faccia un atto di fede nelle deposizioni acquisite dal denunciante, perché deceduto” ha obiettato l’avvocato Enrico Gallo, difensore dell’imputato. Inverosimile, secondo la difesa, l’ipotesi accusatoria che parla di plurime cessioni settimanali, nell’arco di diversi mesi: “I poliziotti dicono chiaramente di non aver mai avuto riscontro di cessioni, durante le indagini e gli appostamenti. La convivente allo stesso modo non conferma questa versione, solo in un’occasione li avrebbe visti scambiarsi una bustina. Non sappiamo cosa ci fosse in quella bustina, né in quale quantitativo”.
Circa la questione dei soldi, aggiunge il legale, “il padre è stato molto preciso, parlando di 300 euro: non è una somma compatibile con mesi di cessioni di droga”. L’ipotesi della difesa è quindi che “il ragazzo era probabilmente in un giro di tossicodipendenza di gran lunga più grosso di quell’unica cessione, ma si è ‘scaricato’ parlando della persona a lui più vicina e meno pericolosa”.