L’accusa ha parlato di “ambivalenza clinica” per definire il comportamento di una donna che, dopo aver denunciato l’ex compagno per maltrattamenti, ha continuato per mesi a inviargli messaggi in cui gli chiedeva di tornare da lei. Per la difesa dell’imputato era invece la prova di quanto sostenuto in aula: le botte non ci sono mai state, la gelosia morbosa della donna sì.
Alla fine i giudici hanno dato credito al racconto della persona offesa, corroborato dalle testimonianze della sorella e della nonna che era anche vicina di casa della coppia. Due anni e tre mesi, la pena inflitta all’uomo, con l’aggravante di aver commesso i maltrattamenti davanti alla bambina di pochi mesi e mentre la compagna era incinta della seconda figlia. La burrascosa convivenza tra i due, in un paese delle valli cuneesi, era cominciata pochi mesi dopo che si erano conosciuti: lui trentenne, di origini straniere, con lavori saltuari e in nero. Lei poco più giovane, italiana, un impiego regolare. Entrambi genitori di bambini avuti da precedenti relazioni.
“A me questa donna non piaceva. Ero a casa sua per necessità, perché non avevo un vero lavoro” ha ammesso l’imputato nel suo esame in tribunale, negando però le violenze: “Non l’ho mai picchiata, cercavo solo di evitarla, anche chiudendomi in casa quando iniziava a rompere le cose e sbattere le porte”. All’origine di tutto, spiega, ci sarebbe stata la gelosia della convivente: “Le discussioni erano per questo, mi controllava anche il telefono”. Per l’accusa le cose stanno in un altro modo: le botte c’erano, almeno tre episodi distinti secondo il sostituto procuratore Francesca Lombardi. Dopo l’ultimo di questi, la giovane si era presentata ai carabinieri di Borgo San Dalmazzo portando con sé la bambina: “Ha riferito di precedenti episodi di aggressività fisica, aggiungendo che il ricorso alle ingiurie era diventato pressoché costante nella relazione: il tema è che lei fosse una poco di buono e una madre inadatta”. Quel giorno, aggiunge il pm, i militari “si accorgono da subito che aveva sul braccio sinistro, coperto, un vistoso livido”.
Tra i temi più discussi il rapporto fra i due dopo la denuncia. Non si vedevano più, ma continuavano a scriversi: “Parliamo di trenta messaggi al giorno da una persona che aveva denunciato il compagno per maltrattamenti e diceva di essere spaventata dall’uomo con cui aveva vissuto” ha rimarcato l’avvocato Luisa Marabotto, difensore dell’imputato. Nei messaggi, sottolinea la difesa, emerge il tentativo di lei di riprendere la relazione, fino a inviargli un bonifico e proporre il ritiro della denuncia: “Gli manda foto di colazioni, di vita quotidiana, con la didascalia ‘questo potrebbe succedere ancora con te’. Gli scrive ‘presto o tardi mi cercherai, ne sono sicura’ e anche ‘resta sempre l’uomo meraviglioso che sei’”. In merito alle violenze la legale aveva fatto notare come la donna avesse rifiutato la visita medica, il giorno della querela: nessun referto ospedaliero nemmeno in riferimento agli altri episodi.
Per la Procura, che aveva chiesto una condanna a tre anni, non basta a escludere i maltrattamenti: “L’atteggiamento ambivalente, per la Cassazione, non rende di per sé inattendibile il racconto delle violenze. Ci sono stati momenti di pacificazione, tanto che il rapporto di coppia è proseguito, ma c’è prova di una serie di azioni violente dal punto di vista verbale e fisico, confermate da nonna e sorella”. Opinione condivisa dall’avvocato Giacomo Telmon, rappresentante della parte civile: “Dobbiamo immaginare una condizione di estrema frustrazione dell’imputato che non voleva avere nessuna relazione con la donna, la quale invece era innamorata e chiedeva uno scambio paritario con il partner. La confusione era enorme, ma questo non esclude l’esistenza dei comportamenti che hanno fortemente compromesso la personalità della persona offesa e minato la crescita della figlia”.