È diffamatorio accusare un esercente di “non pagare i dipendenti”, anche se l’osservazione viene fatta su un profilo personale di Facebook. Lo ha stabilito stamani il giudice Emanuela Dufour condannando l’imputata I.C.G., classe 1965, a due mesi di reclusione con pena sospesa e 300 euro di multa.
In aggiunta alla sanzione comminata dal tribunale penale, la donna di origini guatemalteche, residente a San Damiano Macra, dovrà pagare un risarcimento danni da quantificare in giudizio civile. L’origine della querela è un commento risalente a due anni fa, scritto da I.C.G. sotto un’immagine con la quale il titolare del Cit ma bel di Borgo Gesso a Cuneo pubblicizzava il proprio bar-ristorante. L’immagine era stata postata sulla bacheca privata del ristoratore, ma con una visibilità pubblica (cioè visionabile - e commentabile - da qualunque utente del social).
Nel suo commento l’utente - dietro pseudonimo - si riferiva al locale definendolo un “bar ristorante dove fanno lavorare la gente e non pagano” e sostenendo che il Cit ma bel avrebbe adottato la prassi di chiamare più persone per un periodo di prova senza retribuirle né ricontattarle. A fronte di un’affermazione così specifica, il titolare dell’esercizio pubblico - e del profilo Facebook - aveva invitato l’accusatrice a spiegare a quali episodi si riferisse o a scusarsi, avvertendola che in caso contrario si sarebbe rivolto all’autorità giudiziaria. Non erano però giunte né scuse né spiegazioni, ragion per cui l’uomo aveva deciso di dare seguito al suo proposito.
In aula l’assistente capo di polizia Michele D’Alfonso ha ricostruito i passaggi che hanno portato all’identificazione di I.C.G. come probabile autrice del commento. Sebbene il profilo social non riportasse il suo vero nome, questo era contenuto nell’indirizzo url. Inoltre c’erano numerose fotografie personali e un annuncio pubblicitario che riportava un numero di telefono risultato intestato alla 56enne. La persona, una volta interrogata, aveva confermato di essere l’unica utilizzatrice del profilo. Da parte sua non sono emerse denunce relative a furti d’identità o hackeraggi.
Il pubblico ministero Davide Fontana aveva chiesto per lei la condanna a un mese di reclusione, ricordando che le frasi erano oggettivamente offensive: “Facebook è equiparato a un mezzo di pubblicità e il post era potenzialmente visionabile da una pluralità di persone, essendo il profilo pubblico”. L’avvocato Antonio Tripodi, patrono della parte civile, ha chiesto un risarcimento dei danni anche in ragione della “particolare insidiosità e gravità del comportamento”, posto in essere su un profilo pubblico dell’esercente “con la chiara intenzione di offendere la reputazione dell’azienda davanti ai suoi clienti”.
Per la difesa, rappresentata dall’avvocato Michela Ruffino, non c’era prova dell’intento denigratorio e rilevava invece il fatto che “tutti i messaggi successivi a quello di I.C.G. sono stati a favore della parte civile, tanto da indurre a ritenere che non ci sia stata una lesione d’immagine così grave”.