“Noi siamo abituati a mettere una pistola in bocca”: è una delle frasi che il proprietario di un bar di Borgo San Dalmazzo si era sentito rivolgere da un uomo che pretendeva da lui il pagamento di una serie di somme di denaro sollecitate, a suo dire, dalla precedente proprietaria dell’esercizio commerciale.
Per questa vicenda sono state in seguito arrestate due persone con l’accusa di estorsione: il 26enne G.P., pregiudicato calabrese residente a Revello, e la 46enne B.V., ex titolare di quello stesso bar, incensurata. Secondo la Procura erano stati loro a mettere in piedi un sistema di minacce e ricatti che li avrebbe portati a ottenere 8500 euro tra il giugno e l’ottobre del 2015, prima che l’operazione ‘Pizzo’ condotta dai carabinieri di Borgo li facesse finire in manette. Assieme alla presunta “mente” dell’estorsione e all’ex barista, poi condannati rispettivamente a 4 anni e 6 mesi e a 3 anni 10 mesi, erano stati denunciati anche anche D.P. e A.P., padre e cugino del pregiudicato, ritenuti complici dello stesso reato.
Il processo a loro carico si è concluso nei giorni scorsi davanti al tribunale di Cuneo, dove il sostituto procuratore Attilio Offman ha chiesto per entrambi la condanna sulla base dei riscontri raccolti. A cominciare dalla testimonianza della vittima, il quale aveva riferito di aver visto G.P. accompagnato da altre persone durante le sue periodiche “riscossioni”: il padre D.P., in particolare, sarebbe stato colui che aveva fatto cenno al “mettere una pistola in bocca” mentre suo figlio faceva sporgere dalla giacca un oggetto metallico. Ad A.P. si contestava invece di aver accompagnato in due diverse occasioni il cugino e coimputato: “La sua presenza - ha osservato il pm - rafforza il carattere minatorio delle richieste e serve soprattutto a dare l’idea che dietro a G.P. c’è un gruppo”.
Per la difesa di A.P. l’avvocato Antonio Vetrone ha osservato che l’imputato “non ha detto nulla e non ha chiesto denaro, stando a quanto riferito dalla parte offesa. Non c’è prova che fosse a conoscenza di quello che il cugino volesse fare”. L’avvocato Fabrizio Filipponi, legale di D.P., ha parlato di una ricostruzione dei fatti “scricchiolante” menzionando il mancato riconoscimento fotografico dell’uomo: “Non si capisce se sia stata un’estorsione trasformatasi in truffa o viceversa ma le modalità con cui la parte offesa dice di aver dato i soldi destano perplessità” ha aggiunto il difensore. Il giudice ha riconosciuto entrambi gli imputati responsabili delle condotte contestate, condannando D.P. a sei anni e A.P. a sei anni e due mesi.
In un diverso procedimento, due giovani avventori del bar erano stati condannati per tentata violenza privata per aver
cercato di indurre l’esercente a ritirare la denuncia presentata contro i suoi ricattatori: a lui era stata riferita in modo sibillino la frase
“ho sentito da un amico che i calabresi di Torino sono molto arrabbiati”.