Non capita spesso che al termine di un processo il pm e l’avvocato difensore si trovino d’accordo nelle loro conclusioni, né tantomeno che l’imputato appaia più la vittima che l’autore di un raggiro.
È successo questa mattina davanti al Tribunale di Cuneo, nell’ambito di un procedimento che vedeva alla sbarra S.T., 30enne saviglianese, per emissione di fatture false.
La vicenda è talmente esemplare da sembrare uno spaccato cinematografico del mondo del lavoro di oggi in Italia, quasi un episodio da moderno remake de ‘I mostri’ di Dino Risi. Il protagonista è un giovane che non può contare su nessun sostegno famigliare, avendo perso entrambi i genitori, e che si trova anzi nella difficile situazione di dover aiutare anche la sorella, madre di un bambino piccolo e reduce dal fallimento di un’attività commerciale.
L’ancora di salvezza sembra arrivargli da V.G., imprenditrice titolare di un’azienda di cartellonistica a Beinette, che gli propone di collaborare con la sua ditta fatturando le sue prestazioni tramite una vecchia partita IVA che a suo tempo il ragazzo aveva aperto per gestire il negozio con la sorella. Sulla carta quindi è un professionista autonomo, nella realtà è in tutto e per tutto un lavoratore subordinato: fino a qui, niente di diverso dalla scoraggiante realtà di milioni di suoi coetanei.
Le cose cambiano nel momento in cui gli viene chiesto di emettere due fatture false (di circa 20mila e 8mila euro rispettivamente) che potrebbero far comodo a quella che è di fatto la sua datrice di lavoro in vista della chiusura dei bilanci annuali - siamo infatti tra novembre e dicembre. Se accetta, gli viene garantito, la sua posizione lavorativa verrà finalmente regolarizzata: è il sogno del posto fisso, “noioso” finché si vuole ma tuttora allettante per chi il “bamboccione” non può permettersi di farlo, che si schiude davanti a lui.
S.T. sa di commettere un reato, ma la prospettiva per uno nella sua condizione è troppo allettante. Senonché i controlli portano alla luce l’imbroglio e il giovane si ritrova invischiato in una disavventura giudiziaria. Come se non bastasse, l’assunzione promessa è rimasta un miraggio.
In sede processuale, per un incredibile paradosso della legge, la sua situazione è anche peggiore rispetto a quella dell’imprenditrice, perché il legislatore punisce con pene molto più severe, comprese tra un anno e sei mesi e sei anni di carcere, chi “al fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”.
Risultato: l’imprenditrice scampa all’accusa di falso in bilancio e patteggia quattro mesi di reclusione. Il ragazzo si ritrova invece con una richiesta di condanna di un anno e sei mesi (il minimo previsto) formulata dal pm. Alla fine la giudice Elisabetta Meinardi lo sanzionerà con un anno di pena, riconoscendogli la sospensione condizionale e le attenuanti come richiesto anche dall’accusa.
Il lieto fine, a voler cercarne uno, è nel fatto che nel frattempo S.T. ha trovato un impiego stabile alla Valeo di Mondovì. Ma è difficile non vedere in questa vicenda una parabola di molte storture del mondo del lavoro odierno, oltre a ciò che con una formula un po’ trita si può definire “una sconfitta per la giustizia”.