LIMONE PIEMONTE - Furti al cantiere del Tenda bis, per il giudice gli imputati agirono “senza scrupoli”

“Non hanno esitato a mettere a repentaglio la sicurezza” si legge nelle motivazioni della sentenza di condanna contro cinque ex dipendenti di Grandi Lavori Fincosit

Andrea Cascioli 17/02/2022 19:15

Nessuno scrupolo nel procurarsi un profitto personale, anche a costo di “mettere a repentaglio la stessa sicurezza delle opere che man mano venivano realizzate”. Lo scrive il giudice Sandro Cavallo nelle motivazioni alla sentenza di condanna, pronunciata lo scorso 13 gennaio, nel processo per i furti di materiali ferrosi sul cantiere del Tenda bis.
 
Il traffico di ferro era stato all’origine del sequestro deciso dalla Procura di Cuneo con il blitz del 24 maggio 2017. Un’operazione in grande stile della Guardia di Finanza, disposta dopo mesi di pedinamenti e intercettazioni a carico di chi gestiva all’epoca un cantiere da 209 milioni di euro, finanziato per il 58% dall’Italia e per la restante parte dalla Francia. Proprio sul versante francese, si era scoperto, venivano stipate le centine di ferro che sarebbero dovute servire per sostenere le volte della galleria durante i lavori e che invece, spesso, in galleria non ci passavano nemmeno. “Roba bella, roba nuova” secondo uno degli autisti chiamati a rimuovere quei presunti “rifiuti” dal cantiere.
 
Centine ma anche tondini, micropali, piedritti, profilati in acciaio, per un volume complessivo di almeno 100mila kg rubati e rivenduti dal 2014 fino al momento dell’interruzione forzata dei lavori. A volte i materiali venivano portati via ancora imballati, altre volte venivano tagliati per poter essere caricati: “La scopa è arrivata” si dice nelle telefonate più criptiche per alludere ai carichi. Ma ci sono pure passaggi più espliciti nei quali gli indagati vengono sentiti dire “stanno caricando le centine, quelle buone, che le dobbiamo togliere di là”. A un autista che chiede se debba caricare i rifiuti sul cassone, l’operaio Nunzio De Rosa risponde “il ferro sto parlando… io sto parlando solo di ferro”: “Ah, non i rifiuti rifiuti?” chiede per conferma l’interlocutore. È un passaggio centrale perché smentisce, a parere del giudice, le tesi difensive secondo le quali i materiali portati via dal cantiere sarebbero stati comunque fallati o rotti.
 
Un espediente utilizzato talvolta era quello di ricoprire il ferro “buono” con i rifiuti veri e propri. “Sono rottami che noi raccogliamo fuori tempo, come dire… e poi andiamo a mangiarci la pizza” spiega ancora De Rosa a uno dei rottamatori contattati per dare una parvenza di legalità a tali smaltimenti. Su queste “pizze” in compagnia tra colleghi di cantiere si è dibattuto molto durante il processo. L’idea che si trattasse di semplici cene contrasta con la quantificazione ipotizzata dalle fiamme gialle riguardo agli ammanchi: circa ventimila euro per i carichi accertati, forse più di centomila per quelli che non è stato possibile tracciare. “Avete venduto tonnellate e tonnellate di ferro e non è mai uscita una cena” recrimina il contabile del cantiere, Sergio Scarpelli, parlando con una certa Tiziana.
 
L’oggetto dei suoi strali è l’ingegner Antonino Froncillo, direttore tecnico del cantiere per conto dell’impresa Grandi Lavori Fincosit che aveva vinto la gara internazionale nel 2009. Insieme a lui, accusato anche per la detenzione illecita dell’esplosivo e per una violazione nello smaltimento dei rifiuti, sono finiti a processo i capocantiere Giuseppe Apone e Antonio Palazzo e gli operai Luigi Mansueto e Nunziante De Rosa. Tutti condannati in primo grado a pene comprese tra i tre anni e due mesi e i quattro anni e quattro mesi. Una microspia collocata negli uffici del cantiere intercetta Froncillo mentre parla con due interlocutori: “Abbiamo tolto l’armatura, ma a me piange il cuore… ho lasciato dei soldi, perché lì ci guadagno!”. L’altro risponde stupito: “Sull’armatura? Il primo cantiere che guadagna sul ferro!”.
 
Che ciò incidesse sul buon funzionamento del cantiere è fuor di dubbio, argomenta il giudice. A fronte di telefonate dove si parla di continui arrivi di materiale (“siamo pieni di centine, ma perché ordinate tutte queste centine?” chiede uno degli addetti), sono gli imputati stessi a chiarire che alcuni lavori venivano portati avanti utilizzando meno centine di quante ne sarebbero servite: “Erano tutti materiali che io vedevo stoccati sul piazzale del cantiere e che poi, dopo poco, non c’erano più e non venivano posati in opera” dirà Mansueto nell’interrogatorio di garanzia, precisando che “più di una volta mi è capitato di lamentarmi nel mio lavoro perché mancava il ferro”. Ad occuparsi dei controlli avrebbe dovuto provvedere l’Anas, ovvero “il cane che dorme” citato in una delle conversazioni telefoniche registrate. Il giudice però è netto nell’affermare che i controlli sul cantiere fossero “pressoché assenti”. Il direttore dei lavori Vincenzo D’Amico (deceduto poco dopo il rinvio a giudizio) “seguiva prevalentemente i lavori dal suo ufficio di Milano” e si recava sul posto solo una volta ogni mese o mese e mezzo. I militari della Finanza, dal canto loro, affermano di aver visto ben di rado transitare i mezzi dell’Anas, nei mesi in cui attenzionavano il cantiere: una circostanza che ha portato nella sentenza a ipotizzare che possa esserci stata addirittura “accondiscendenza” da parte degli ispettori.

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