Si è conclusa oggi davanti al tribunale di Cuneo la vicenda processuale della 30enne N.I., cittadina nigeriana, al centro di un
giro di sfruttamento della prostituzione che la Squadra Mobile della Questura aveva sgominato nell’agosto del 2016.
Si tratta delle ragazze del cosiddetto ‘condominio dell’amore’, come l’avevano ribattezzato gli inquirenti. Un palazzotto in via Basse San Sebastiano dove la ‘maman’ S.A. e la sua soprastante N.I. spingevano a prostituirsi alcune giovani connazionali arrivate in Italia con la promessa di un lavoro. Una di loro, rimasta incinta, era stata costretta ad assumere un farmaco abortivo ed era finita in coma. Sarebbe stato proprio questo terribile episodio a sancire la fine dell’incubo, facendo scattare la perquisizione dell’alloggio di via Roma in cui erano segregate le tre ventenni che ‘esercitavano’ in via Basse.
N.I., intestataria dell’abitazione di via Roma, era stata arrestata per sfruttamento della prostituzione, mentre la ‘maman’ doveva rispondere anche di procurato aborto e lesioni personali. La 30enne ha in seguito patteggiato una condanna a quattro anni per questi fatti, ma la Procura le ha contestato anche il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: sarebbe stata lei, in sostanza, a organizzare il presunto ‘viaggio della speranza’ di almeno due delle ragazze.
“È chiaro che si tratta di un frammento finale in un ben più ampio insieme di condotte delittuose” ha chiarito il sostituto procuratore Giulia Colangeli nella sua requisitoria, aggiungendo che “non è stato possibile accertare per intero i fatti perché le persone offese non hanno potuto fornire riscontri ed è mancata in questo processo, come nel precedente, la collaborazione dell’imputata”. Solo lei, secondo la rappresentante dell’accusa, “avrebbe potuto chiarire il funzionamento di questi traffici di esseri umani”.
Per le due giovani il viaggio era cominciato nell’estate 2016 da Benin City, nel sud della Nigeria con una traversata nel deserto di una settimana verso la Libia e un soggiorno di oltre un mese in un ghetto. In seguito erano state caricate su un naviglio e inviate verso Lampedusa, dove erano sbarcate il 24 luglio. Dalla Sicilia le due erano state trasferite in un centro d’accoglienza ad Albissola Marina, in provincia di Savona, dal quale sarebbero poi scappate dirigendosi a Cuneo.
La “piena partecipazione” di N.I. all’intera operazione, secondo il pubblico ministero, si potrebbe desumere dalla circostanza che già mentre le ragazze si trovavano ancora in Nigeria era stato chiesto loro di inviare fotografie via mail per rendersi riconoscibili a chi le avrebbe accolte all’arrivo: “Non c’è stato un ‘passaggio di consegne’. Da quando sono fuggite dal centro di accoglienza hanno sempre abitato a casa dell’imputata”. Alla loro ‘auntie’ (‘zietta’) le due dovevano consegnare tutto il ricavato della loro attività, oscillante tra i 100 e i 150 euro al giorno, più di 3mila euro in un mese, in pagamento di un debito dall’entità imprecisata. Per lei l’accusa ha chiesto infine la condanna a sei anni di reclusione.
La difesa ha ritenuto per contro che vi fossero “troppi elementi dubitativi rispetto a una contestazione così grave” come quella contestata: il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, del resto, non era stato contestato alla donna nel precedente processo proprio perché, a giudizio del legale, troppo labili e lacunosi erano gli indizi offerti dalle ricostruzioni delle vittime.
Il tribunale collegiale invece ritenuto sussistenti gli elementi per la condanna, comminando alla sfruttatrice nigeriana - al momento detenuta - ulteriori due anni e sei mesi di carcere.