“Loro non mi lasciano stare, perché in Egitto fanno così per vendicarsi, ti bruciano casa. Sappiate che se mi succede qualcosa sono stati loro”: impressiona ascoltare le parole pronunciate in un’aula di tribunale da un 49enne egiziano, a Mondovì da molti anni e titolare di diverse imprese commerciali.
L’uomo sostiene di essere finito nel mirino di un clan di connazionali che a Torino gestisce alcuni banchi al mercato di Porta Palazzo e svariate attività. Si parla di circa ottocento persone, secondo uno dei testimoni ascoltati nel processo che vede imputati S.H., il capoclan, e suo nipote M.H., accusati entrambi di tentata violenza privata. I due, secondo la Procura, avrebbero minacciato l’imprenditore per “convincerlo” a non rivelare tutto ciò che sapeva su possibili mandanti ed esecutori dell’incendio subito nel novembre 2018 dalla sua abitazione di Pogliola. Poco dopo il rogo i carabinieri avevano sorpreso nelle vicinanze della casa il fratello di M.H. e altri due egiziani,
tutti in seguito processati e condannati.
Tutto sarebbe scaturito dai dissidi tra la vittima dell’attentato incendiario e i due fratelli riguardo alla compravendita di una locale kebab a Mondovì. Secondo la parte offesa, i fratelli avrebbero organizzato una finta vendita con un connazionale, utilizzato come prestanome: quest’ultimo però avrebbe a sua volta ceduto il locale a un altro gestore, venendo meno al tacito accordo e trasferendosi in Germania con il ricavato dell’operazione. I fratelli accusavano lui, titolare di una cooperativa di servizi e di un minimarket a Cuneo, di aver fatto da intermediario, incassando anche una certa somma sulla vendita.
Il giorno dopo l’incendio, l’imprenditore si era recato a lavorare. All’uscita dal minimarket, intorno alle ore 12, sarebbe stato avvicinato da M.H. e da S.H.: “Mi avevano fatto vedere la pistola, poi M.H. aveva detto ‘se non togli la denuncia ammazzo te e i tuoi figli’. Da quel giorno ho ricevuto tante telefonate da numeri sconosciuti, erano loro parenti e dicevano di parlare a nome loro. Ora ho cambiato casa e non sanno dove abito”. La presunta vittima afferma di aver subito riconosciuto il più giovane dei due, M.H., perché titolare di un ristorante a Torino presso il quale lui era solito mangiare. Il più anziano, invece, sarebbe il capo famiglia: “Lui risolve problemi, - ha spiegato un altro testimone - se qualcuno del clan litiga con persone di altre famiglie si va da S.H. perché faccia da giudice e paciere. Non lo fa per denaro”.
Nell’ultima udienza entrambi gli imputati hanno risposto alle domande del giudice e delle parti. “Ho saputo dell’incendio e dell’arresto di mio fratello la sera stessa” ha affermato M.H., negando di essere il mandante del rogo: la parte offesa aveva detto tra l’altro di aver ricevuto una sua telefonata di minacce la notte prima dell’azione punitiva. Gli imputati sostengono di essere venuti nella Granda due volte, nei giorni successivi, in entrambi i casi viaggiando in treno da Porta Nuova. L’intento - a loro dire - era solo quello di mettersi in contatto con un avvocato e attendere la scarcerazione del parente arrestato.
La discussione finale del processo è in programma il 24 marzo.