La gioia e il sollievo per il proscioglimento da una parte, quella della donna che da tre anni si è trovata al centro di uno dei casi giudiziari più complessi degli ultimi decenni. L’amarezza dall’altra, dove si credeva che le prove raccolte bastassero, almeno, ad istruire un processo nel quale finalmente sarebbe arrivata una verità giudiziaria, qualche che sia, sulla morte di Nada Cella.
“Siamo ovviamente molto soddisfatti del proscioglimento. Ce lo aspettavamo perché gli indizi erano molto labili. Aspettiamo le motivazioni e la decisione del pm”: questo il commento consegnato ai cronisti dagli avvocati che assistono Annalucia Cecere, il genovese Giovanni Roffo e la cuneese Susanna Martini. La sentenza di proscioglimento nei confronti della 55enne di origini chiavaresi, che da decenni risiede a Boves, non è ancora una parola definitiva: ci potrà essere un ricorso. Ma di certo il pronunciamento del gup Angela Nutini mette un punto sulla vicenda.
“Per noi - dicono Roffo e Martini -
i punti deboli dell’indagine erano chiari: gli indizi non erano gravi, precisi e concordanti. Con le carte alla mano abbiamo cercato di fare capire la logicità della linea difensiva mentre la linea dell’accusa aveva incongruenze profonde”. E la questione dei bottoni? Pochi giorni dopo il delitto, avvenuto a Chiavari la mattina del 6 maggio 1996, i carabinieri ne sequestrarono cinque in casa della Cecere, che viveva a pochi metri di distanza dallo studio del commercialista
Marco Soracco, dove Nada fu assassinata. La criminologa Antonella Delfino Pesce,
artefice della riapertura del caso nel 2021, sostiene che siano identici a quello rinvenuto vicino al corpo della vittima, al quale però mancava una ghiara di plastica:
“Il bottone era simile ma non uguale - ribatte la difesa -
e francamente non si vede quali novità potessero emergere a seguito di consulenze. Lei ha sempre sostenuto la sua totale estraneità. Non è stata, per tutti questi anni, una situazione piacevole”.
La Procura accusava anche Soracco, il datore di lavoro della 24enne uccisa, e sua madre Marisa Bacchioni: sapevano e non dissero nulla, secondo gli investigatori. Quel giorno il commercialista sarebbe sceso in studio “prima delle nove”, non più tardi come ha sempre sostenuto, incrociando l’assassina: avrebbe poi dichiarato “di non essersi accorto di quanto accaduto alla segretaria e di aver inizialmente pensato ad un malore o a un urto accidentale su qualche spigolo”, cosa che in prima battuta ipotizzarono anche i soccorritori. A Soracco, prosciolto a sua volta da ogni accusa, si imputava inoltre di aver mentito sulla sua conoscenza con la Cecere, dichiarando “di non aver avuto alcuna relazione, ma solo una occasionale frequentazione, e che la donna non era mai andata in studio, eccetto che in una sola occasione - qualche giorno prima dell’omicidio - in cui l’aveva ricevuta la segretaria Nada Cella”. Il castello di bugie, secondo gli inquirenti, riguarderebbe poi la telefonata di una amica “ricevuta lo stesso giorno dell’omicidio (con la richiesta di intercedere per il posto di lavoro di Nada) e in merito alla telefonata ricevuta personalmente il giorno in cui la stessa Cecere subì una perquisizione (‘non sono mai stata innamorata, anzi mi fai schifo’), ometteva di fornire informazioni utili (asserendo solo di aver considerato la persona della Cecere ‘figura non importante’)”.
“Siamo attoniti e dispiaciuti. E la famiglia stupita. La magistratura non finisce mai di stupirmi”: qui c’è tutta l’amarezza dell’avvocato Sabrina Franzone, legale di Silvana Smaniotto, la mamma di Nada. “Speravo e confidavo che si potesse approfondire. Sarebbe stato giusto celebrare questo processo” aggiunge: “La famiglia comunque sa. Sa che le cose sono andate come la polizia e la procura hanno ricostruito. Questa indagine è stata condotta in modo corretto da parte di tutti”. La madre di Nada, venerdì mattina, ha pianto in aula alla lettura del dispositivo ed è andata via sorretta da figlia e nipote.
Tanta delusione e rabbia traspare anche dalle parole consegnate ai social da Antonella Delfino Pesce, la criminologa che in tutti questi anni è stata vicina alla famiglia Cella, esaminando i faldoni dell’inchiesta: “Le sentenze si rispettano. Aspetterò 30 giorni per leggere le motivazioni che sicuramente saranno fondate e forse anche inappellabili. Il post canonico e perbenista finisce qui. Adesso ne inizia un altro, certamente non in linea con l’orientamento giuridico della recente Cartabia. Ho conosciuto il peggio della legge attraverso fascicoli vecchi di 25 anni. E ho sempre pensato e sperato che alla verità si potesse ancora arrivare a piccoli, faticosissimi passi. E un processo sarebbe stato l’ennesima opportunità per giungerci. Il mondo viene costruito ogni giorno attraverso cosa decidiamo di essere o non essere, cosa scegliamo di fare lo non fare. Da domani perciò sapremo tutti cosa ci dovremo aspettare se avremo voglia di rincorrere la giustizia e confidare in essa. Il nulla”.