Quarantatre pagine di motivazioni per dire un “no” che pesa come un macigno. Un elenco di deposizioni, nomi, date, ipotesi, dove ricorre come un mantra la stessa frase ripetuta più volte, al fondo di ogni capitolo: “Tale elemento non può qualificarsi dunque un indizio, bensì un sospetto”.
Il gup di Genova Angela Maria Nutini ha usato questa formula per bollare come “insufficiente e per alcuni aspetti contraddittorio” il quadro indiziario contro Annalucia Cecere, l’ex maestra da quasi trent’anni residente tra Cuneo e Boves, su cui pendeva una richiesta di rinvio a giudizio per l’omicidio di Nada Cella. Insieme a lei erano accusati, per favoreggiamento e false dichiarazioni al pm, il datore di lavoro della segretaria uccisa a Chiavari nel 1996, Marco Soracco, e sua madre Marisa Bacchioni. Prosciolti tutti, la Cecere per non aver commesso il fatto, gli altri perché il fatto non costituisce reato. Una differenza non da poco.
La pista dei soldi: per il giudice è l’“alternativa più plausibile”
Nella sua lunga disamina, infatti, il giudice si mostra comprensiva con la principale indagata (“va anche tenuto conto - scrive parlando del suo temperamento iracondo - della vita difficile che fece questa donna, orfana da bambina, madre giovanissima, sicuramente desiderosa di accasarsi”), ma spende parole di fuoco nei confronti dei coindagati. Il commercialista Soracco e sua madre sono ritenuti responsabili di un tentativo di depistaggio che “emerge dagli atti con solare evidenza”, fin dalle prime battute. Lo prova, secondo la magistrata, anzitutto quell’assurdo impulso a lavare le scale dal sangue della vittima, alterando in modo irrimediabile la scena del crimine. Una donna “colta e tutt’altro che sprovveduta” come la Bacchioni, professoressa in pensione, non poteva non saperlo. Quanto al figlio, pesano le ritrattazioni sull’ora di arrivo in ufficio: prima indica le nove e cinque, poi cerca di spostare l’orario sempre più in là. È provato anche che qualcuno avesse messo mano al computer di Nada già il giorno del delitto, prima che si potesse svolgere qualsiasi accertamento: perché?
Perché la pista da seguire è un’altra, sostiene il gup Nutini, quella che la Procura indica solo come “movente alternativo” all’ipotesi della gelosia furiosa che Cecere, innamorata di Soracco, avrebbe nutrito per quella ragazza senza nemici e senza grilli per la testa, quasi sua coetanea, che pare le somigliasse molto. L’“alternativa logica più plausibile” sarebbe la presunta scoperta di “buste con grosse somme di denaro” nello studio del professionista. Un affare losco, forse collegato a un giro di usura, con membri delle forze dell’ordine e “gente del porto” coinvolti: di tutto questo Nada avrebbe parlato a Pasqua con lo zio, un mese prima di morire. Aggiungendo che stava cercando in ogni modo di andarsene ma che Soracco, accortosi di qualcosa, le avrebbe detto di “levarsi dalla testa l’idea di lasciare quell’ufficio”. Va detto che sulla pista degli affari sporchi, sostenuta anche dalle dichiarazioni di un collega di Soracco, si indagò già poco dopo il delitto, senza trovare niente. A maggior ragione sarebbe complicato riaprirla adesso, considerato che lo zio di Nada, il quale ai tempi aveva aspettato un anno e mezzo a parlare (per paura, disse), afferma di non ricordare nulla di queste clamorose confidenze della nipote.
Cosa non torna nell’inchiesta sull’ex maestra, dai testimoni al movente
Ma cosa spinge il gup ad accantonare l’idea che le carte dell’accusa siano “sufficienti per collocare l’imputata sul luogo del delitto”? Anzitutto il fatto che la prova regina da cui partì l’indagine della criminologa Antonella Delfino Pesce, ovvero il famoso bottone trovato in una pozza di sangue, non sarebbe solo di diversa grandezza ma anche di diverso colore, rispetto a quelli sequestrati dai carabinieri a casa della Cecere. Qui però ci si deve basare sui riscontri del 1996, dato che i bottoni vennero restituiti all’indagata e oggi non ci sono più. Poi ci sono i testimoni, cominciando dai due, una mendicante e suo figlio, che dissero di aver incontrato una giovane donna dall’aria sconvolta, con una mano insanguinata e fasciata, a breve distanza dal luogo del delitto. Anche ignorando le incongruenze tra i due e il fatto che non riconobbero in foto la Cecere, scrive il giudice, quel che raccontarono confligge con la testimonianza della “signorina”, ovvero la presunta testimone anonima che chiamò diverse persone nei mesi successivi all’omicidio, compresa la Bacchioni. Alla madre di quello che era allora il principale indagato, la “signorina” disse di aver visto la Cecere accostarsi al proprio motorino in via Marsala, sotto lo studio di Soracco: non era a piedi, dunque.
La Cecere a quei tempi lavorava come donna delle pulizie per un dentista di Santa Margherita Ligure. L’uomo non ricorda se quel giorno lei fosse a lavoro alle 9,30, cioè mezzora dopo l’orario presunto del delitto, ma “è plausibile - conclude il giudice - ritenere che quella verifica venne effettuata nel 1996 allorché venne archiviata la posizione dell’indagata”. Anche qui ci si deve affidare all’intuito, perché il fascicolo con la richiesta di archiviazione e gli atti d’indagine è andato perduto durante un’alluvione, negli archivi della ex Procura di Chiavari: “Non si potrà mai sapere, per certo, se vi fossero prove a discarico decisive o valutate tali dall’allora pubblico ministero” ammette Nutini.
Circa le confidenze raccolte da amici e conoscenti dei Soracco, compresa la “signorina”, pesa il cattivo giudizio nei riguardi dei due, “a fronte di dichiarazioni inveritiere e di condotte quantomeno discutibili”. In particolare la telefonata che un’amica del commercialista avrebbe ricevuto la sera dell’omicidio, da una donna che si candidava a “sostituire” la segretaria assassinata, non è provata: l’asserita destinataria della chiamata non ricorda di averla mai ricevuta. E l’altra telefonata scottante, quella fatta dalla stessa Cecere a Soracco, per negare ogni interesse sentimentale verso di lui? Secondo il gup non dimostra affatto l’esistenza di un rapporto stretto tra i due, ma solo che lei era spaventata e convinta che il suo coinvolgimento nella vicenda derivasse da qualcosa che lui poteva aver detto agli inquirenti. Tanto più considerando che non vi è traccia di Soracco nei diari della Cecere, “ove invece si trovano i nominativi di altri uomini e delle sue storie sentimentali”, o nelle testimonianze di chi frequentava l’uno e l’altra.
Se il movente non convince, nemmeno la dinamica dei fatti induce chi ha valutato i riscontri a collocare l’indagata sulla scena del crimine. L’aggressione sarebbe cominciata nell’ingresso, ma “non è agevole ipotizzare” che Cecere “appena aperta la porta, si sia immediatamente procurata l’arma del delitto” o che potesse muoversi “con disinvoltura” nello studio. E non si capisce comunque chi avrebbe fatto scorrere parecchia acqua in bagno, particolare confermato da una vicina (sebbene i sanitari fossero poi stati trovati puliti e asciutti), o a chi appartenga la “voce non giovanile” che una cliente del commercialista disse di aver sentito dopo aver chiamato più volte l’ufficio, in orario compatibile con quello del brutale assalto. Un particolare a margine: tra gli elementi a sostegno, l’accusa ha menzionato una conversazione carpita tra Soracco e la madre durante le indagini. “Quanto danno ci ha fatto quella donna lì, eh?” aveva detto l’ex professoressa. Riferendosi alla Cecere, secondo il pm. No, replica il giudice: poteva trattarsi di Nada. Lo proverebbe il fatto che la Bacchioni, incontrando anni dopo la madre della vittima, ebbe a dirle che “quello che era successo aveva rovinato la vita di suo figlio”. Opinione del resto condivisa dalla sua defunta sorella, Fausta, la zia di Soracco, che nel suo memoriale scrisse parole sprezzanti anche verso papà Cella: “Pover’uomo, mi fa tanta pena, ma, se non sa leggere o parlare, abbia almeno il buon senso di stare zitto!”.
La criminologa non ci sta: “Imbarazzante leggere le motivazioni”
“È stato imbarazzante leggere le motivazioni della sentenza Nada Cella. Nessuno ha mai voluto un colpevole a tutti costi”. È lo sfogo che la criminologa Antonella Delfino Pesce, artefice della riapertura delle indagini, ha consegnato ai social il giorno dopo le motivazioni della sentenza di proscioglimento. “Si è sempre cercato di arrivare a un contraddittorio - ha continuato - che sarebbe stata l'occasione per mettere a confronto tra loro i tre indagati che, fino ad oggi, si sono presi beffe di tutti, in primis della magistratura, dimostrando che si può omettere, mentire e rifiutarsi di dare spiegazioni senza inciampare in alcun capo di imputazione”.
Eppure nemmeno nei confronti di Soracco e Bacchioni, accusati di depistaggio, si è scelto di procedere: perché si è ritenuto che, da indagati, si fossero limitati ad “astenersi dal rendere dichiarazioni autoindizianti o a tutelare il prossimo congiunto”. “Come si può addurre colpe gravissime all’indagato - obietta Delfino Pesce - e non prendersi poi la responsabilità di un processo? Come si può prosciogliere l’indagata sulla base di un Dna cercato e non trovato dopo tre decenni? Come si può presumere che l’alibi sia stato verificato nel 1996 se nulla è agli atti? Sarebbe giusto che qualcuno si prendesse per una volta la responsabilità di avvertire i familiari di omicidi irrisolti di non aspettare più, di farsene una ragione perché per loro lo Stato non ci sarà. Bisogna abituarsi a non aver fiducia nella giustizia da piccoli perché da grandi si fa fatica”.
La Procura, però, non si dà ancora per vinta. Il sostituto procuratore Gabriella Dotto prepara il ricorso, spalleggiata dall’avvocato della famiglia Cella, Sabrina Franzone. Si parla di sviste importanti nelle motivazioni del gup. A cominciare dall’alibi della Cecere: sembra incredibile, ma pare che nessuno, ventotto anni fa, avesse pensato di chiederne conferma al suo datore di lavoro. E oggi è troppo tardi per farlo.