“Alla mamma di Nada ho ripetuto fin dall’inizio di non farsi illusioni. Era il nostro patto: lei non si sarebbe dovuta illudere, io in cambio non mi sarei scoraggiata. Vi abbiamo tenuto fede entrambe”. A parlare è
Antonella Delfino Pesce, la criminologa barese che due anni fa
ha fatto riaprire il caso Nada Cella.
“Ovviamente Silvana è sfinita e sa che c’è ancora da attendere, per capire se si andrà a processo” aggiunge, perché tutte e due sanno che la strada è lunga. È altrettanto vero, però, che mai come oggi la famiglia di Nada ha avuto una speranza concreta di arrivare a una verità giudiziaria, qualunque essa sia, su ciò che accadde il 6 maggio del 1996 in via Marsala a Chiavari. “Quando ho saputo della conclusione delle indagini - racconta Delfino Pesce - è stata una grossa emozione anche per me. Posso immaginare quanto lo sia stata per lei”. A una riapertura dell’inchiesta, un quarto di secolo dopo, non credeva più nessuno: c’è voluta la tenacia di una sconosciuta che ha ripreso tutti i faldoni, esplorando anche quegli angoli bui che gli inquirenti dell’epoca avevano oltrepassato senza guardare.
Qualcuno le ha dato dell’investigatrice dilettante e l’ha accusata di volersi sostituire ai magistrati. Ma dal momento in cui le carte sono tornate in mano ai “veri” investigatori, la criminologa è sempre rimasta un passo indietro, senza interferire. E così vuole continuare a fare:
“Ringrazio la Procura e gli inquirenti che si sono interessati: ci voleva coraggio per riaprire un’indagine di quasi trent’anni prima”. L’avviso di conclusione delle indagini non l’ha ancora letto, se non nelle parti già divulgate dalla stampa.
“Ci sono più indizi di quanto si supponesse due anni fa e passaggi che hanno destato una mia grande curiosità” ammette. È un modo garbato per dire che alcuni sviluppi non se li aspettava nemmeno lei e non tutti rientrano fra le ipotesi formulate all’inizio. Il ruolo di
Marco Soracco e di sua madre
Marisa Bacchioni, ad esempio: il commercialista, datore di lavoro di Nada e primo a denunciarne l’aggressione (pur credendo si trattasse di un tragico incidente), è accusato addirittura di aver
mentito sulle circostanze del ritrovamento. Avrebbe saputo subito cos’era accaduto, anzi avrebbe visto l’assassina e scelto di coprirla, forse per paura che qualche scandalo lo travolgesse nella sfera professionale.
Non è una conclusione che Delfino Pesce avesse suggerito, ma lei assicura:
“La ‘mia’ indagine non è così diversa: ho sempre detto di avere certezze solo sulla Cecere”. E
Annalucia Cecere, trasferitasi da ventisette anni nel Cuneese, a Mellana di Boves, resta a suo giudizio il punto di convergenza di tutti gli indizi: i
bottoni identici a quello ritrovato sotto il corpo di Nada, le testimonianze della
vicina di casa e di alcuni
passanti, le
telefonate della “signorina” e quelle dirette a Soracco, perfino la
voce di donna che una cliente dello studio sentì all’altro capo della cornetta, intorno alle 9. L’ora in cui Nada veniva colpita a morte.
Resta forse la figura più enigmatica della vicenda, quella del commercialista. Possibile, ci si domanda ora, che non nutrisse nemmeno un sospetto sulla misteriosa “Anna”, la persona che lo aveva chiamato pochi giorni dopo per smentire sul nascere ogni coinvolgimento sentimentale (
“io non sono innamorata di te, anzi mi fai proprio schifo”)? Possibile anche che non avesse dato nessun peso all’altra telefonata, quella riferitagli da un’amica, riguardo a una donna che la sera stessa del delitto
si era proposta di “sostituire” la segretaria? Di questo avrebbe parlato solo alla riapertura delle indagini, due decenni e mezzo dopo. E perché sua madre avrebbe confidato a un religioso di non poter dire tutto ciò che sapeva su quel massacro, dato che qualcuno, nella Chiesa, le avrebbe consigliato di tacere per il bene di suo figlio?
Il filone relativo ai sacerdoti è uno di quelli che i primi inquirenti trascurarono e su cui solo negli ultimi due anni ci si è mossi con più convinzione. Altrettanto dovrebbe essere accaduto, ipotizza Delfino Pesce, per quanto riguarda i vicini di casa di Soracco: la signora Egle Sanguineti viveva con la figlia Luciana Signorini, affetta da turbe psichiche, che fu anche tra i sospettati nei primi mesi. Entrambe sono morte da tempo, ma è viva l’altra figlia di Egle, Lorenza, che aveva raccolto alcune confidenze. Parlando al telefono, senza sapere di essere intercettata, la madre aveva fatto qualche allusione a Soracco, sostenendo che sarebbe sceso nello studio al piano di sotto già verso le nove, non alle 9,10 come aveva dichiarato. La Sanguineti fu torchiata in Procura, ma non seppe chiarire la cosa: “Lorenza Signorini, la figlia, è l’unica persona che non ero riuscita a contattare prima della riapertura delle indagini. Ma di certo sarà stata sentita dagli inquirenti e potrebbe aver detto qualcosa di rilevante” azzarda la criminologa.
“Ci sono tante di quelle cose incredibili in questa storia che nessun film potrebbe avere una sceneggiatura del genere” aggiunge. Una lezione anche per lei, dal momento che
la pista del Dna si è raffreddata e gli investigatori hanno dovuto guardare altrove:
“Come genetista mi ero fatta l’idea che qui si giocasse il destino dell’indagine e sono contenta di aver avuto torto. La verità è che, come diceva Galileo, la differenza la fa sempre l’occhio che guarda nel telescopio: questa indagine la vedo così, è basata su tanto lavoro, tanto sudore, tante lacrime da parte di tutti. Forse da questo punto di vista sarà un caso unico, è come se la storia ci avesse costretti a contare solo su chi ha preso parte alla vicenda, in una maniera o nell’altra”.