LIMONE PIEMONTE - Processo Tenda bis, la storia di uno scherzo durato sette anni

Il verdetto dei giudici di appello ribalta la condanna dei cinque imputati. Alla base della sentenza un cavillo: mancava la querela per le “sparizioni” del ferro

Andrea Cascioli 09/05/2024 16:55

Abbiamo solo scherzato, quindi. Non perché le tonnellate di ferro “buono” - che uscivano dal cantiere di Limonetto travestite da “rottami” - non siano mai esistite, ma perché per la legge, mai così lontana dalla giustizia, quell’andirivieni non è ciò che gli inquirenti pensavano che fosse.
 
In senso tecnico non bisognerebbe parlare di assoluzione, in riferimento al verdetto di appello per i cinque imputati nel filone cuneese dell’inchiesta sul Tenda bis. In pratica però è la stessa cosa, e quel “non doversi procedere” ha il medesimo effetto. Tant’è che, se la sentenza venisse confermata dalla Cassazione, i centomila euro di provvisionale e l’ulteriore risarcimento dovuto al Comune di Limone Piemonte farebbero la fine delle centine del cantiere: spariti nel nulla.
 
Per sapere su cosa i giudici della Corte d’Appello di Torino si siano basati bisognerà aspettare di leggere le motivazioni, fra due mesi. Nel frattempo, sappiamo perché il verdetto abbia ribaltato la condanna del tribunale di Cuneo in primo grado: il fatto è stato riqualificato, come si dice in gergo giuridico, da furto ad appropriazione indebita. Sono due fattispecie diverse del codice penale: il furto, prima della riforma Cartabia, era procedibile d’ufficio in presenza di determinate aggravanti. Ora non più, a meno che - si legge al comma 7 bis dell’articolo 625 - non sia per esempio “commesso su componenti metalliche o altro materiale sottratto ad infrastrutture” di servizi di trasporto, che poi è esattamente il caso del Tenda bis. L’appropriazione indebita, normata dall’articolo 646 del codice, punisce invece chi sottragga denaro o altri beni mobili altrui “di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso”.
 
Cosa cambia? Che in quel caso serve una querela, cioè l’atto con cui chi ha subito il reato esprime la volontà di procedere per punire il colpevole. Atto che in questo caso non c’è, e tanto basta per sostenere che, dal punto di vista legale, non è successo niente. Poi ci sono i reati minori, la violazione ambientale nello smaltimento dello smarino e quella sull’incauta detenzione dell’esplosivo di cantiere, ormai prescritti: ma quello, ci si passi il termine, era un corollario e non ha a che fare con la “ciccia” del processo. Per quanto varrebbe la pena di ricordare ciò che disse il maresciallo della Finanza Marcello Casciani, riferendosi ai candelotti inesplosi in galleria: “Non lo sapevamo, quando siamo entrati per tagliare alcune centine e verificare la qualità dei materiali. Abbiamo corso un grosso pericolo, perché le scintille avrebbero potuto innescare un’esplosione”. Almeno in quel caso non sarebbe servita la querela.
 
Riavvolgiamo il nastro. È il 24 maggio 2017, la Guardia di Finanza irrompe nel cantiere di Limonetto e sequestra tutto. Alcuni mesi prima si è scoperto che sulla strada della val Vermenagna c’era un via vai un po’ sospetto: qualcuno parla di gasolio e materiali da costruzione rivenduti in nero. Le fiamme gialle decidono di capire se ci sia qualcosa di vero, iniziano a seguire i camion e a intercettare le conversazioni. Si scopre che un traffico di ferro c’è eccome: almeno 212 tonnellate, secondo i finanzieri, tra l’avvio dei lavori e il momento del sequestro. Le centine, cioè le strutture di appoggio della galleria, pagate 850 euro alla tonnellata, vengono rivendute a prezzi irrisori. Il guadagno è di oltre 23mila euro per i carichi che gli inquirenti sono stati in grado di censire, ma potrebbe essere in realtà superiore ai 100mila. Nel corso di due diversi appostamenti, i finanzieri fotografano gli operai sul versante francese del cantiere, mentre tagliano le centine consegnate lo stesso giorno. Tutti “scarti”, come quelli che verranno trovati su un camion il giorno del sequestro.
 
“Sono rottami che noi raccogliamo fuori tempo, come dire… e poi andiamo a mangiarci la pizza” spiega l’operaio Nunzio De Rosa, il primo ad essere intercettato, a uno dei rottamatori. Qualche volta ci si preoccupa anche di coprire il ferro “buono” con i rifiuti veri: ecco perché, in una delle telefonate, un interlocutore chiede a De Rosa se stesse parlando proprio dei “rifiuti rifiuti”, cioè di veri scarti. Insieme al “tuttofare” De Rosa sono coinvolti un altro operaio, Luigi Mansueto, i capi cantiere Giuseppe Apone e Antonio Palazzo e pure il direttore tecnico dei lavori, l’ingegner Antonio Froncillo. “Avete venduto tonnellate e tonnellate di ferro e non è mai uscita una cena” recrimina il contabile del cantiere, Sergio Scarpelli, parlando di Froncillo: altro che “pizze in compagnia”. “Col ferro ci guadagno” dice Froncillo, suscitando la perplessità del suo interlocutore, che gli risponde di non aver mai saputo di un cantiere che “guadagnasse” col ferro. È un equivoco, spiegherà l’ingegnere dal banco degli imputati: intendeva dire che ci guadagnava la sua azienda, la Fincosit. Un altro episodio bizzarro è la consegna di una busta con 1400 euro in contanti che l’imprenditore De Mitri, uno dei rottamatori, passa a Froncillo in un autogrill sulla Torino-Savona. Anche per questo il direttore tecnico ha una spiegazione: era il rimborso di una multa da 3100 euro che l’Arpa aveva comminato al cantiere e lui, evidentemente, non aveva trovato un modo meno rocambolesco per farseli restituire. Peccato, ribatterà il pm, che la multa l’avesse già pagata l’azienda.
 
A leggere certi brani delle intercettazioni non si sa se piangere o ridere. In una, per esempio, qualcuno sconsiglia al contabile Scarpelli di lasciare in cantiere le porte tagliafuoco appena acquistate: perché “i ladri ce li hai dentro casa”, gli dice l’interlocutore. “Il dato di fatto - dirà il procuratore Onelio Dodero nella requisitoria - è che si è risparmiato: tranne l’Anas, cioè Pantalone, che ha pagato per tutti”. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado, il giudice Sandro Cavallo scrive che gli imputati non hanno avuto nessuno scrupolo nel procurarsi un profitto personale, anche a costo di “mettere a repentaglio la stessa sicurezza delle opere che man mano venivano realizzate”. Ma anche che i controlli dell’Anas, definito “il cane che dorme” in una delle telefonate, erano “pressoché assenti” e che anzi potrebbe esserci stata addirittura “accondiscendenza” da parte degli ispettori.
 
Uno scherzo anche quello. Come lo è il fatto che, al momento del sequestro, i lavori iniziati tre anni e mezzo prima fossero più o meno al punto di partenza. O come gli altri tre anni che ci sono voluti perché alla Grandi Lavori Fincosit, ormai sulla via del fallimento, subentrasse un altro appaltatore, la Edilmaco. Tutto questo senza parlare degli ulteriori ritardi, della consegna dei lavori annunciata e poi prorogata, dell’ultimo ministro - in ordine di tempo - che arriva a Fossano e implora i cronisti: “Non chiedetemi una data”. Verrebbe da dare a questa vicenda una degna conclusione, come nella Favola di Venezia di Corto Maltese, chiamando sul palcoscenico tutti i protagonisti di questa commedia buffa: gli imputati, i finanzieri, i due procuratori che hanno seguito l’inchiesta, il giudice di primo grado, gli avvocati, l’Anas, la Fincosit e, perché no, anche noi giornalisti che abbiamo raccontato un anno di udienze e centinaia di pagine di documenti, pensando che fosse tutta una cosa seria. Vogliate scusarci, gentile pubblico: abbiamo scherzato un po’. Ma almeno adesso il tunnel ce l’avete, anzi no.

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