Quando li avevano arrestati nell’ottobre 2012, dopo sei mesi di complesse indagini con intercettazioni telefoniche e ambientali e pedinamenti tramite Gps, i carabinieri del Reparto Operativo di Cuneo li avevano ribattezzati la ‘banda dell’ariete’. Gli ‘arieti’ in questione erano in realtà automobili di ignari cittadini che i malviventi rubavano per poi sfondare porte e saracinesche dei bar in mezza provincia e appropriarsi del denaro contenuti nei videopoker. Le auto - perlopiù Ford Escort e Fiat Punto - venivano in genere abbandonate nelle campagne dopo ogni ‘spaccata’.
A gestire il sodalizio due fratelli albanesi pluripregiudicati, l’allora 31enne V.Q. e il 34enne S.Q., assieme ai quali si alternavano nei furti vari connazionali attivi negli ambienti criminali del Saluzzese e del Saviglianese. La giostraia 28enne P.F., residente a Villafranca Piemonte (To) e moglie di V.Q., faceva sovente da autista. Sarebbero state proprio le sue frequentazioni a mettere i militari dell’Arma sulle tracce del gruppo, dopo i primi colpi messi a segno a Morozzo e Cherasco e poi ancora a Saluzzo, Caraglio, Busca, Tarantasca, Savigliano e altre 26 località tra la provincia Granda e il Torinese.
Una cinquantina in tutto gli episodi contestati all’epoca dalla Procura di Mondovì. Oltre alle ‘spaccate’ e al furto di 21 autovetture, alla ‘banda dell’ariete’ erano stati addebitati anche l’asportazione di 200 litri di gasolio da un escavatore a Genola (primo reato attribuibile con certezza ai due fratelli e ai loro complici), una serie di truffe con assegni rubati e un furto in abitazione.
Gran parte delle posizioni sono state definite nel corso degli anni con riti alternativi. La scelta della ‘donna del capo’ di patteggiare e rendere testimonianza contro gli ex complici ha aiutato non poco gli inquirenti e stamani, davanti al tribunale di Cuneo, si è chiuso l’ultimo atto della vicenda processuale a carico di V.Q., dei presunti sodali E.P. (nato nel 1991 e residente a Caraglio) e V.T. (classe 1981, residente a Moretta) e di G.C., il ricettatore italiano della banda.
Quest’ultimo, un 51enne nativo di Palermo e residente a Saluzzo, era ritenuto dalla Procura il ‘terminale’ dei furti perché si occupava di rivendere la merce rubata e forniva le garanzie per le truffe. A suo carico anche un’imputazione per furto in abitazione: circuendo un disabile con la promessa di un incontro galante con una ragazza, G.C. era riuscito ad allontanare il giovane da casa sua e svaligiarla.
Il pubblico ministero Alessandro Borgotallo ha sottolineato come, sebbene il procedimento valutasse posizioni ormai marginali, quella posta in essere dai fratelli V.Q. e S.Q. “è un’associazione a delinquere clamorosa che solo per cause procedimentali è sfociata in questo ‘spezzatino’ e in capi di imputazione ulteriormente ridotti dalle scelte di riti alternativi”. Una complessa istruttoria che il pm aveva seguito prima ancora dell’accorpamento del tribunale di Mondovì e che ha portato a termine chiedendo condanne tra i 4 e i 6 anni per i quattro imputati.
Il giudice Alice Di Maio ha confermato le responsabilità con la sola eccezione di V.T., che doveva rispondere di concorso in truffa e ricettazione. Per il capo della banda V.Q., ora detenuto in Albania, è arrivata la condanna a quattro anni e due mesi, mentre E.P. è stato condannato a tre anni e dieci mesi di carcere per gli stessi furti aggravati. Pena ancor più severa quella di cinque anni e dieci mesi comminata a G.C., ritenuto responsabile del furto in abitazione e di episodi di ricettazione.