Su un solo punto accusa e difese sono d’accordo, al termine del processo per il crollo del viadotto di Fossano. Lo sintetizza, in una frase, l’avvocato Nicola Gianaria: “Se l’acqua è entrata, una ragione ci dev’essere”. Il problema è capire a chi addossarla, quella responsabilità: all’Anas o alle imprese costruttrici? A chi ha svolto i lavori di costruzione del ponte nel 1992 o a chi si è occupato della manutenzione, quattordici anni dopo? Oppure a tutti quanti, in egual misura?
La Procura i suoi conti li ha già fatti, la scorsa udienza, con una richiesta quasi “salomonica”: sette condanne e cinque assoluzioni, ripartite in modo pressoché paritario tra Anas e costruttori. Due anni per Massimo Croce e Mauro Tutinelli, responsabile di cantiere e capocantiere della Grassetto, ovvero la capogruppo dell’associazione temporanea di imprese che si aggiudicò l’appalto. Due anni anche per il direttore dei lavori di Anas Angelo Adamo e per il suo coadiutore Massimo Sibiglia. Un anno e sei mesi per Roger Rossi, geometra della Ingegner Franco spa, ritenuto responsabile dell’omesso controllo sull’iniezione della boiacca nei cavi di precompressione (il “peccato originale” da cui ha origine la corrosione, quindi il crollo). Un anno e due mesi per Maria Rosalba Vassallo, responsabile tecnico della Pel.Car. spa, e Giulio Accili, direttore del centro manutentorio di Anas all’epoca in cui la Pel.Car. eseguì i successivi lavori di manutenzione, nel 2006. Assoluzione piena, invece, per i cantonieri dell’Anas Valentino Pisani, Biagino Ciancio e Dario Cristian Ciminelli, ma anche per un altro funzionario della Ingegner Franco, Mauro Annibale Forni, e per l’amministratore unico della Pel.Car., Marcello Graziano, con formula dubitativa.
Questi ultimi, secondo le valutazioni dei pubblici ministeri Pier Attilio Stea e Mario Pesucci,
non sono responsabili di quei “lavori fatti alla carlona”. Ovvero dell’insufficiente iniezione di boiacca, lo “strato protettivo” di cemento e calce che avrebbe dovuto coprire i cavi e impedire le infiltrazioni. Cosa che non avvenne, tant’è che l’acqua entrò nelle guaine e provocò il disastro del 2017. L’avvocato Marco Ivaldi, difensore di Rossi e Forni, denuncia un “cortocircuito” dell’accusa: tra i tecnici che la procura presso la Corte dei Conti sta chiamando a rispondere del danno erariale, infatti, non c’è Roger Rossi. Ovvero la persona che, in ipotesi, avrebbe commesso il primo e più grave errore. Ma c’è di più, sostiene il legale:
“La boiacca non è un preparato taumaturgico. Lo dimostra la prova pioggia effettuata dopo il crollo: sono stati presi quattro o cinque irrigatori da giardino e posti sul manto stradale, nella parte in cui la boiacca era giudicata di grado 3, cioè ‘perfettamente iniettata’. Dopo cinque ore di ‘pioggia’ fine, l’acqua percolava”.
Insomma, la “pistola fumante” non sarebbe l’iniezione della boiacca, ma piuttosto il taglio dei tubi di iniezione e sfiato: effettuato non si sa da chi, in un periodo successivo. Sempre in periodo successivo, di quasi tre lustri, ci sono stati i lavori di sostituzione dei giunti: anch’essi eseguiti male, sostiene il pm. Per chi difende coloro che lavorarono negli anni Novanta non è un dettaglio: “Perché, nell’arco di tempo ampio tra la messa in opera e questo intervento, la struttura non ha mai avuto segni di cedimento”. Sull’intervento del 2006 accende i riflettori anche Gianaria, difensore del responsabile di cantiere Croce: è quello il momento in cui “il profilo di drenaggio del cordolo viene riempito di calcestruzzo e quindi non è in grado di convogliare l’acqua”. Resta il problema della boiacca, ma qui c’è una spiegazione alternativa: “Il consulente Doglione dice che non sono stati utilizzati additivi perché erano più cari rispetto all’acqua, quindi la boiacca è stata creata in modo troppo fluido. Tanto è vero che anche dove la boiacca era in quantità elevata, l’acqua è entrata: allora non è un problema delle operazioni di tiraggio, ma della boiacca troppo porosa”. “Nessun consulente ci dice quando si sia avuto l’innesco” osserva l’avvocato. Ed è un punto fondamentale, in effetti: quando è iniziata la corrosione, da subito o nel 2006? E chi avrebbe dovuto notarla? “Le attività di sorveglianza sul ponte sono state fatte? Anas sostiene di sì ma non ha i verbali di controllo, noi invece abbiamo i verbali di collaudo e di visita in corso d’opera”.
A proposito di Anas, il principale imputato è l’ingegner Adamo, caposezione e direttore dei lavori. Un “bersaglio” sbagliato, sostiene l’avvocato Roberta Biei: “È vero che il direttore lavori doveva seguire lo svolgimento delle opere in cantiere, ma è anche vero - e previsto dalla normativa - che il suo è un ruolo di alta sorveglianza: non del ‘giorno per giorno’. Adamo non ha mai avuto evidenze che l’opera fosse stata eseguita in modo difforme da quanto stabilito”. È pacifico che l’ente stradale fosse in carenza di personale, prosegue la difesa. Ma se così era, obietta la Procura, Adamo avrebbe potuto rinunciare all’incarico. No, ribatte Biei: “La rinuncia all’incarico è prevista solamente in materia di reati urbanistici, nell’ipotesi in cui si riscontri ‘totale difformità’ rispetto al progetto”.
Più semplici le posizioni degli altri imputati Anas, per i quali la Procura ha chiesto l’assoluzione. Per i cantonieri Ciancio e Ciminelli parla l’avvocato Paolo Dotta: “Non avevano nessun obbligo giuridico di segnalare macchie, colature o fioriture: non c’è nessuna norma che imponesse ai cantonieri di farlo”. Inoltre, anche di questo si è molto discusso, le segnalazioni non avrebbero portato a nulla: perché le infiorescenze, visibili sul ponte, in realtà erano dal lato opposto, quello “sano”. Lo sostiene anche l’avvocato Franco Papotti, legale del geometra Pisani, che è definito dagli inquirenti un “capo nucleo”: “In realtà, nella sostanza, era di fatto un capo cantoniere. Gli strumenti in dotazione a Pisani sono identici di Ciancio e Ciminelli: cioè nessuno, con l’esclusione della vista e dell’esperienza”.
La discussione degli altri difensori proseguirà il prossimo lunedì 15 luglio.