FOSSANO - Quattro colpevoli per il crollo del viadotto di Fossano: alla Provincia subito 500mila euro

Accolte anche le richieste di risarcimento per il ministero e l’Anas, ancora da quantificare. Per il disastro erano alla sbarra dodici imputati

Andrea Cascioli 24/09/2024 10:19

A sette anni dal disastro c’è finalmente una sentenza per il crollo del viadotto “La Reale” di Fossano, avvenuto il 18 aprile 2017 lungo la Statale 231. Quattro le condanne decise dal giudice Giovanni Mocci, otto le assoluzioni con la formula più ampia dell’insussistenza del fatto.
 
I responsabili del disastro per il tribunale di Cuneo sono l’ingegner Angelo Adamo, direttore dei lavori di Anas, il geometra Roger Rossi, all’epoca incaricato della Ingegner Franco spa, il responsabile di cantiere Massimo Croce e il capocantiere Mauro Tutinelli, entrambi ex dipendenti della Grassetto: per i quattro la condanna è a un anno e quattro mesi, con il beneficio della sospensione condizionale della pena. Tutte accolte le richieste di risarcimento delle parti civili, ovvero il ministero delle Infrastrutture, l’Anas e la Provincia di Cuneo. Solo per quest’ultima, però, il giudice ha disposto una provvisionale di 500mila euro, subito esecutiva: l’ente aveva dimostrato di averne spesi già 400mila per la manutenzione stradale a seguito della chiusura della Statale, che ha comportato la deviazione di 500 camion al giorno sulle strade provinciali. Ma non è finita: con le ulteriori ripavimentazioni, la somma dovrebbe superare il milione.
 
Il processo vedeva alla sbarra dodici imputati, tra dirigenti dell’Anas e tecnici delle varie aziende succedutesi nell’esecuzione dei lavori: in primis la Grassetto, parte del gruppo Itinera, che si aggiudicò l’appalto nel 1990 e che sarebbe stata messa in liquidazione anni dopo. Poi la Ingegner Franco spa - anch’essa scomparsa - che fornì i conci prefabbricati del ponte. Infine la Pel.Car. che eseguì le sostituzioni dei giunti nel 2006. Due gli snodi temporali della vicenda: il primo risalente al giugno 1992, quando vennero installati i cavi di precompressione sui tre conci che componevano il ponte. Il secondo appunto al 2006, quando furono eseguiti i lavori successivi.
 
La Procura aveva chiesto sette condanne per altrettanti imputati, a pene comprese tra un anno e due mesi e due anni di carcere. “Nessun dolo, ma una sciatteria nell’esecuzione di operazioni di carattere elementare, che hanno avuto conseguenze tragiche sia nel 1992 che nel 2006” la sintesi del pm Pier Attilio Stea, che ha sostenuto l’accusa insieme a Mario Pesucci. I famosi “lavori fatti alla carlona” di cui aveva parlato nella requisitoria.
 
Il “peccato originale” è la scarsità di boiacca sui cavi di precompressione che tenevano uniti i tre conci, cioè le diverse sezioni del ponte. La boiacca, una miscela di cemento e calce, avrebbe dovuto coprire i cavi ed impedirne la corrosione: in questo caso, però, ci fu anche un problema di mancata impermeabilizzazione, dovuto alla non sigillatura dei tubi. Tutti gli otto cavi erano carenti di boiacca nel famigerato concio A, quello che cedette: “Questa situazione di scopertura dei cavi era presente anche in altre parti del viadotto, non era un fenomeno localizzato” ha rilevato il pubblico ministero. Nessuno sa con certezza se il vizio originario abbia covato fino al 2006 e sia “esploso” solo a causa dei successivi lavori. Sta di fatto, affermavano gli inquirenti, che nemmeno i lavori affidati alla Pel.Car. sarebbero stati eseguiti a regola d’arte. Una ricostruzione che la sentenza ha smentito, assolvendo tutti gli imputati dell’azienda campana.
 
In un processo con posizioni così diversificate, la strategia delle difese non poteva che essere improntata all’“ognun per sé e Dio per tutti”. Ovvero al rimpallo delle responsabilità: c’è chi ha suggerito che il problema non fosse la scorretta iniezione di boiacca, ma il taglio dei tubi. Oppure che la boiacca ci fosse eccome, ma fosse troppo fluida. Centrale, per tutti, il fatto che i tempi d’innesco della corrosione non siano mai stati accertati: i consulenti d’accusa propendono per la data più vicina nel tempo, cioè il 2006, alla luce del fatto che un deterioramento più antico avrebbe dovuto provocare prima il crollo. Ma è una mera scommessa. L’altro punto che ha messo d’accordo tutti i difensori è stato il j’accuse contro il convitato di pietra, l’Anas. Presente nella veste di accusatore e accusato: “Una struttura scalcagnata” ha ironizzato un legale, mentre c’è stato perfino chi ha parlato di “assoluzione del sistema” per stigmatizzare la presunta “mano leggera” usata dal gup e dal pm con l’ente stradale.
 
La Procura sosteneva che le macchie di umidità avvistate sul ponte fossero irrilevanti. Erano sul lato “sano” e, se anche si fosse deciso di analizzarne le cause, in quel punto non si sarebbe trovato nulla. Questo per l’accusa solleva gli ispettori dalle colpe, ma non gli altri funzionari, in particolare il direttore dei lavori Adamo. La sua difesa in tribunale è stata tanto schietta quanto disarmante: i controlli? Erano facili, perché Itinera era una grande impresa. E allora perché non ci furono? “L’Anas non prevedeva assistenti di cantiere, cioè personale che presenziasse continuamente ai lavori”. Una “foglia di fico”, ribatte il pm: se il direttore dei lavori non poteva assumere assistenti avrebbe dovuto battere i pugni sul tavolo, al limite rinunciare all’incarico. Non lo fece. E nemmeno l’Anas se ne preoccupò: salvo assumerne ben sette per i lavori di ricostruzione di un ponte che - in teoria - sarebbe dovuto durare almeno cinquant’anni. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.

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