Era stata un’inchiesta condotta nel 2014 dalla Guardia di Finanza di Mondovì, all’epoca sotto il comando del tenente Arrigo Galvan, a sfociare nel rinvio a giudizio dell’amministratore delegato della Rhibo Maxicar, ingegner S.B., per una serie di reati fiscali nonché per estorsione e vendita di prodotti industriali contraffatti. Di quest’ultima imputazione è stato chiamato a rispondere anche F.G., presidente della storica azienda di ricambi lamierati fondata a Ceva nel 1936.
La Procura di Cuneo, che ha ereditato il fascicolo dopo l’accorpamento del tribunale di Mondovì, contesta a S.B. condotte finalizzate all’evasione fiscale a partire dall’anno 2009. In particolare, secondo la tesi accusatoria l’amministratore delegato di Rhibo avrebbe colpevolmente omesso di presentare la denuncia dei redditi perché residente in Repubblica Ceca, benché l’Italia fosse la sede principale dei suoi affari. Un’ulteriore imputazione riguarda l’accusa di aver fatturato alla ditta individuale di una conoscente prestazioni di cui in realtà godeva la sua azienda, al fine di evitare il pagamento dell’Iva. Cade invece l’ipotesi di estorsione, per la quale lo stesso pubblico ministero ha chiesto l’assoluzione.
Quanto alla presunta falsificazione della merce, gli inquirenti avevano ritenuto che il fatto che i ricambi prodotti a Taiwan e commercializzati dalla Rhibo venissero reimballati dopo lo scarico a Genova costituisse un illecito. Il procuratore Alessandro Borgotallo ha sostenuto a questo proposito: “Va garantita l’esigenza dell’acquirente finale di avere piena contezza di ciò che compra. Non è possibile farlo se concediamo al rivenditore di modificare i prodotti a seconda della convenienza commerciale: è evidente che un bene con il marchio ‘made in Taiwan’ abbia un’appetibilità diversa rispetto al ‘made in Italy’”.
A carico dell’amministratore delegato dell’impresa cebana S.B. la pubblica accusa ha chiesto la condanna a complessivi quattro anni di carcere. Otto mesi invece per il presidente F.B., imputato per la sola contraffazione. Il difensore di quest’ultimo, avvocato Maurizio Anglesio, ha osservato a questo riguardo come “in nessun caso sono stati obliterati o coperti i marchi del produttore estero”, ricordando inoltre che “secondo la Cassazione, quando il marchio corrisponde alla ditta che si assume la responsabilità della qualità della merce, è irrilevante che essa sia solo un rivenditore italiano di merce estera”. La Rhibo, ha sottolineato ancora il legale, commercializza soltanto ricambi non originali e la provenienza italiana o estera degli stessi “ha minore impatto come valore aggiunto rispetto al ricambio originale”: “Il cliente non è il privato che acquista la merce dallo scaffale, sono tutti ricambisti che scelgono dal catalogo e spesso a loro volta rivendono ad altri. C’è una ben diversa conoscenza delle caratteristiche del prodotto”.
Stesse conclusioni sono state rassegnate dai difensori di S.B., Tommaso Servetto e Piero Jemina. In riferimento agli illeciti fiscali, i legali dell’amministratore delegato di Rhibo hanno derubricato le accuse a “frutto della fantasia giuridica della Procura”: le operazioni di cui si contesta l’inesistenza sarebbero invece documentate dalle stesse indagini delle fiamme gialle. Inoltre, “S.B. non è ‘evasore totale’ come ha sostenuto la Guardia di Finanza: è residente in pianta stabile da tredici anni in Repubblica Ceca e qui presenta la sua denuncia dei redditi”.
Il processo è stato rinviato al 24 marzo per la sentenza.