“Una ditta per scaricare ci va sempre” diceva uno degli imputati, registrato a sua insaputa. In realtà erano più d’una le ‘scatole cinesi’ utilizzate dai quattro imputati, residenti fra Mondovì, Piozzo e Carrù, che per anni si sono serviti della complicità di un pregiudicato per frodare quasi un milione e 200mila euro al fisco.
A processo per bancarotta fraudolenta in concorso sono finiti A.A., fondatore di cooperativa Lavoro arl, L.B., amministratore unico di Granda Lavoro, E.V., amministratrice di cooperativa Lavoro fino al 2013, e S.D., dipendente e socio delle cooperative coinvolte. Al centro della ragnatela intessuta dai quattro si trovava un quinto uomo, il pregiudicato pugliese A.G.: un personaggio che secondo la Procura si era prestato a fare da amministratore fittizio delle varie società messe in piedi e poi liquidate dagli imputati perché viveva in condizioni finanziarie disperate. Messo alle strette, la ‘testa di legno’ ha ammesso le sue responsabilità e patteggiato. C’è però un particolare che gli ex soci non avevano considerato: l’uomo aveva infatti registrato diverse conversazioni nelle quali emergevano gli illeciti, a cominciare dalle fatture per operazioni inesistenti al solo scopo di abbattere Iva e ricavi.
Sul piano formale A.G. era a capo della società cooperativa Consulcoop, la cui sede di trovava all’interno di quella della cooperativa Lavoro di Piozzo: sebbene l’azienda emettesse fatture da decine di migliaia di euro per ipotetiche consulenze, l’unico bene societario intestato era un computer nell’ufficio di uno degli imputati. Sempre ad A.G. facevano riferimento un’impresa individuale e l’associazione sportiva dilettantistica San Severo Calcio, registrata a San Severo in provincia di Foggia: al club sarebbero state versate forti somme in sponsorizzazioni, peccato però che la squadra-fantasma non sia mai stata iscritta a nessun campionato di calcio.
Una volta dichiarato lo stato di insolvenza della Consulcoop nel novembre 2014, le irregolarità hanno cominciato a emergere: “Dalle registrazioni emerge che gli altri soggetti coinvolti hanno dato a intendere ad A.G. che pagando una mazzetta a qualche finanziere tutto si sarebbe aggiustato. Non si è potuto capire se si trattasse di millantato credito o di qualcosa di più, ma questa è la vera ombra nel processo” ha dichiarato il sostituto procuratore Pier Attilio Stea, chiedendo condanne a due anni e due mesi per E.V., a sei anni per A.A. e S.D. e a sei anni e tre mesi per L.B..
L’avvocato Roberto Tesio, rappresentante dell’erario costituitosi in giudizio, ha ricostruito a sua volta il meccanismo delle entrate e uscite: “La Consulcoop viene creata per consentire alla cooperativa Lavoro di abbattere l’imponibile, per permettere ad A.A. e agli altri di figurare come dipendenti con uno stipendio legale e infine per consentire a ognuno di loro di prelevare somme di denaro con carte intestate alla società”. Sebbene l’unico titolato a utilizzare i bancomat fosse l’amministratore, le indagini hanno provato che dalle carte bancarie erano stati prelevati vari importi in luoghi diversi nel medesimo lasso di tempo.
Una circostanza che l’avvocato Rocco Sardo, difensore degli imputati insieme al collega Nicola Schellino, ha spiegato chiamando in causa i familiari di A.G.: “Si può ipotizzare che anche la moglie dell’amministratore usasse quei bancomat. Del resto A.G. è un pluripregiudicato per reati gravi e non sembra così sprovveduto e raggirabile”. C’è poi da considerare, ha aggiunto il rappresentante della difesa, che la commercialista ha sempre ammesso di essersi rapportata solo con l’amministratore di Consulcoop: “Perché si sarebbe prestata a questo gioco, se sospettava che dietro all’amministratore di diritto ci fossero degli amministratori di fatto?”.
Al termine del processo il collegio giudicante presieduto da Marcello Pisanu ha condannato A.A. e S.D. a quattro anni di reclusione, L.B. e E.V. a quattro anni e due mesi. Tutti loro dovranno concorrere al risarcimento dei danni in sede civile e al pagamento di una provvisionale di 200mila euro come richiesto dalla parte civile.
Gli avvocati, annunciando il ricorso, hanno commentato: “I nostri assistiti, tutti incensurati, sono stati meri soci della cooperativa a responsabilità limitata, e non hanno mai assunto, né in diritto né in fatto, incarichi amministrativi all’interno della stessa. L’ipotesi accusatoria si basa sul presupposto, non provato a dibattimento, che i suddetti soci siano stati anche amministratori di fatto. Interporremo pertanto appello per dimostrare che le condotte contestate competono esclusivamente all’amministratore unico della cooperativa, soggetto pluripregiudicato che ha già patteggiato la pena per bancarotta e per i reati tributari collegati”.