Non è una minaccia qualunque, quella denunciata due anni fa dal personale ferroviario di Mondovì. Non lo è perché arriva da una autentica gang di giovanissimi, nordafricani e italiani, che per anni ha terrorizzato chi viaggiava sui treni tra Mondovì, Ceva e Lesegno. Nel “curriculum” dei cattivi ragazzi ci sono una sfilza di precedenti di polizia per interruzioni di pubblico servizio, danneggiamenti, rapine e aggressioni. Sono i destinatari dei quattro Daspo urbani per la zona della stazione che erano stati emessi nel maggio 2023: per due di loro, appena ieri, è stato reso noto l’aggravamento della misura - ora c’è la sorveglianza speciale - perché avevano continuato imperterriti a comportarsi come prima. Un altro episodio attribuito alla banda, ancora più grave, è lo sfondamento dei vetri di un bus a San Michele Mondovì, con il lancio di un pesante dissuasore in ghisa contro l’autista.
La vicenda per cui oggi sono a processo due cugini di nazionalità italiana, S.R. e F.R., risale al settembre del 2022. L’antefatto è una denuncia che alcuni mesi prima una giovane capotreno aveva presentato contro un altro membro della “baby gang”. Il passeggero, all’altezza di Lesegno, si era risentito per la richiesta di indossare la mascherina e aveva iniziato ad inveire contro la dipendente di Trenitalia, formulando anche minacce di morte. A settembre il gruppo si era presentato in stazione a Mondovì, per due volte, cercando di rintracciare la “colpevole”. Alla capostazione in servizio era stato detto chiaro e tondo che la cercavano “per fargliela pagare”: “Volevano vendicarsi” ha confermato quest’oggi la testimone.
Sulla presenza dei due cugini in stazione convergono, oltre alla testimonianza della dirigente ferroviaria, quella del capotreno e del macchinista del treno fermatosi alle 17,20 e di nuovo alle 21,20, e anche la versione fornita da un’altra capostazione, in quel momento fuori servizio, che si era fermata per salutare i colleghi. Anche a lei erano state chieste informazioni su come rintracciare l’autrice della querela: “Oggi sono abbastanza tranquilla, ma due anni fa avevo paura anche a tornare a casa. Ho ricevuto più volte minacce verbali, allusioni su dove abitavo. Nel tragitto tra la stazione e casa mia, duecento metri circa, a volte un gruppo di ragazzi mi gridava insulti: più volte mi hanno urlato ‘primo piano’, come a dire ‘sappiamo dove abiti’”. In questo gruppo, ha precisato, almeno S.R. era sempre presente.
Il macchinista del treno regionale San Giuseppe di Cairo-Fossano ricorda di aver individuato subito, in stazione, un terzetto di giovani “già conosciuti perché creavano disagi, danni ed eventuali ritardi”. Al pomeriggio gli era stato detto “stai attento, se non ci fai salire stasera vi aspettiamo qua”, da una persona poi riconosciuta come S.R.: gli altri facevano da spalla, senza dire nulla. “Era da tempo che provocavano problemi, non solo ai colleghi ma anche ai viaggiatori” ha ricordato il teste: “A maggior ragione ero in ansia dopo la minaccia che avevano fatto, sapendo che sarei dovuto tornare in quella stazione”. Per ridurre i rischi, nel successivo passaggio delle 21,20 si era deciso di chiudere tutte le entrate, tranne quella del vagone di testa: S.R. si sarebbe di nuovo presentato, mostrandogli sul cellulare il profilo Facebook della collega e chiedendo informazioni su di lei. Il ragazzo, ha detto il macchinista, mostrava di sapere su quali linee lavorasse e aggiungeva che “la stava cercando per una querela avvenuta mesi prima”.
All’ipotesi di minaccia si aggiunge l’accusa di interruzione di pubblico servizio, perché uno del gruppo, identificato in F.R., aveva cominciato a bloccare la porta e ad azionare la maniglia di emergenza per non permettere al treno di ripartire: alla fine il convoglio aveva accumulato una decina di minuti di ritardo.
Il prossimo 28 ottobre si attendono la conclusione dell’istruttoria e la sentenza.