MONTEZEMOLO - Processo ai centri di accoglienza, i testi di difesa smentiscono l’accusa: “Mai presi doppi rimborsi”

La Procura contesta una truffa per oltre 300mila euro ai gestori di undici CAS. Ma i dipendenti negano che le cooperative percepissero compensi indebiti

Andrea Cascioli 30/10/2023 15:30

Nessun doppio rimborso sui richiedenti asilo, come invece la Procura di Cuneo contesta ai quattro imputati della presunta truffa da oltre 300mila euro ai danni dello Stato. A smentire la tesi accusatoria, oltre ai diretti interessati, sono vari dipendenti delle tre cooperative che gestivano in tutta la provincia undici centri di accoglienza straordinari (CAS), convenzionati con la Prefettura.
 
La Immacolata 1892 gestiva tre CAS a Ceva, uno a Valdieri, uno a Montezemolo e due a Borgo San Dalmazzo, mentre alla coop Il Tulipano facevano capo quelli di Levaldigi, Bene Vagienna e Monterosso Grana e alla Casa dell’Immacolata il centro di Belvedere Langhe. Da un’ispezione a Montezemolo, nel dicembre 2017, è nata l’inchiesta della Guardia di Finanza di Mondovì che vede ora i quattro amministratori delle cooperative alla sbarra. L’accusa contesta a tutti loro di aver “gonfiato” i rimborsi previsti per ciascun ospite, per un ammontare complessivo di 317mila euro. Dai CAS in cui venivano segnati come presenti, gli immigrati sarebbero stati “arbitrariamente trasferiti in Liguria per svolgere attività lavorative in campo edilizio e cura e manutenzione del verde” con “compensi al di fuori di ogni norma di legge, senza autorizzazioni o contratti”.
 
Circostanze che le difese negano in maniera risoluta: è vero che diversi richiedenti asilo erano stati alloggiati a Pietra Ligure, nel Savonese, in un fabbricato rurale appartenente a Eligio Accame, uno degli imputati. Ma il soggiorno rientrava fra le attività formative che le cooperative offrivano agli ospiti: nello specifico, si trattava di imparare da un muratore in pensione l’arte dei muretti a secco, in vista di futuri inserimenti lavorativi. L’artigiano edile che tenne il corso, sentito come testimone, ha negato di aver mai svolto altre attività per conto di chi lo aveva assunto. Anche le donne delle pulizie che lavoravano per i centri di accoglienza ricordano di aver sentito i ragazzi parlare con entusiasmo delle trasferte a Pietra: “Dicevano che gli piaceva molto perché c’erano giardini, come al loro paese” conferma una di loro.
 
Sulla questione dei rimborsi si è espressa una ex impiegata amministrativa della Casa dell’Immacolata: “La richiesta di rimborso alla Prefettura faceva capo al solo CAS di assegnazione”. In altre parole, gli immigrati che si fermavano in altri centri per frequentare i corsi non venivano rimborsati due volte. Anzi, le cooperative talvolta davano loro piccoli incentivi economici, in aggiunta al pocket money previsto per legge, proprio per invogliarli: “Non era affatto facile” ammette l’ex dipendente, giacché “molti si rifiutavano addirittura di imparare l’italiano, nonostante l’insegnante fosse lì: era necessario inserire un po’ di tutto”. Così, oltre ai corsi di lingua e alle ore con i mediatori culturali, i gestori dei centri avevano proposto corsi di informatica, di elicicoltura o appunto di giardinaggio e costruzione a secco, come nel caso di Pietra. A Savigliano era stato avviato un corso di cucina e servizio di sala, con certificazione HACCP, ristrutturando un ex ristorante: tutti investimenti privati, precisa la testimone, senza interventi da parte della Prefettura. “Li occupavamo il più possibile per evitare che andassero a zonzo o a creare danni ed elemosinare nei negozi, come comunque era successo” fa presente l’impiegata.
 
Un piccolo caso “di scuola”, da questo punto di vista, è stato il CAS di Monterosso Grana. Era stato aperto nell’ex albergo “A la Posta”, già chiuso da anni: “All’inizio - ricorda la proprietaria dell’immobile - la popolazione e l’amministrazione locale non lo accettavano: trattandosi di un albergo con 59 camere si pensava che avremmo ospitato chissà quante persone, invece non è stato così. C’erano undici ragazzi che si sono fermati per due mesi e mezzo”. La proprietaria, insegnante di lingue in pensione, assieme ad alcuni colleghi aveva creato una scuola nell’ex hotel: “C’erano due ragazzi analfabeti, si è dovuto fare un lavoro notevole: alcune colleghe si occupavano di matematica elementare, altri di italiano. La cooperativa si è adoperata tantissimo per far arrivare banchi, quaderni e materiali di prima necessità”. Dopo la chiusura per inagibilità, decisa dal sindaco, il centro si era spostato in un edificio privato poco distante: “Dopo tre o quattro mesi la situazione si è capovolta, tanto che il Comune ci ha concesso due aule del Municipio per l’insegnamento. So che quattro ragazzi si sono sposati con italiane e sono rimasti”.
 
Il 15 gennaio il processo proseguirà con l’audizione di altri testi di difesa.

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