“Quando sono arrivati non ero molto contento, in un paese di nemmeno 500 abitanti avere trenta profughi non è molto bello, per un sindaco”: a parlare è Gualtiero Revelli, per quindici anni a capo dell’amministrazione di Belvedere Langhe.
Negli anni “caldi” dell’emergenza sbarchi, quando lui era ancora sindaco, la cooperativa torinese Casa dell’Immacolata aveva organizzato in paese l’accoglienza di un gruppo di richiedenti asilo, tutte donne: “Ho dovuto cambiare idea - spiega - perché da quando sono arrivate non abbiamo mai avuto problemi. Anzi ce n’è stato uno solo, erano tutte ragazze e hanno cominciato a fare il mestiere più antico del mondo”. Anche questa faccenda, comunque, si sarebbe presto sbrogliata: “L’ho detto ad Accame e in capo a due giorni hanno risolto”. Lino Accame è la persona che faceva da trait d’union fra le tre cooperative che gestivano ben undici centri di accoglienza straordinari in provincia: la Immacolata 1892 ne aveva tre a Ceva, uno a Valdieri, uno a Montezemolo e due a Borgo San Dalmazzo, la cooperativa Il Tulipano era attiva a Levaldigi, Bene Vagienna e Monterosso Grana e la Casa dell’Immacolata, appunto, a Belvedere Langhe.
Da un’ispezione a Montezemolo, nel dicembre 2017, è nata l’inchiesta della Guardia di Finanza di Mondovì che vede i quattro amministratori delle coop alla sbarra. L’accusa contesta a tutti loro di aver “gonfiato” i rimborsi previsti per ciascun ospite, per un ammontare complessivo di 317mila euro. Dai CAS in cui venivano segnati come presenti, gli immigrati sarebbero stati “arbitrariamente trasferiti in Liguria per svolgere attività lavorative in campo edilizio e cura e manutenzione del verde” con “compensi al di fuori di ogni norma di legge, senza autorizzazioni o contratti”.
In Liguria, obiettano le difese, c’era sì una struttura dove formalmente i richiedenti asilo non si sarebbero dovuti trovare (ogni spostamento andava autorizzato dalla prefettura), ma non era certo un “campo di lavoro”. Si trattava invece di una cascina di proprietà dello stesso Accame, nel comune di Pietra Ligure, già ristrutturata e adibita a sede per un corso di costruzione di muretti a secco. Sulla circostanza hanno deposto svariati testi, tra cui il geometra che eseguì la ristrutturazione e il muratore che faceva da insegnante, mostrando agli ospiti dei CAS come montare e smontare un muro a secco. L’ingegnere che si occupava delle consulenze sugli immobili ha anche aggiunto che le cooperative non si limitavano a svolgere i corsi “base”, previsti dall’accordo con la prefettura. Ne venivano offerti altri, facoltativi, a carico delle stesse cooperative. Come quello sulla sicurezza, con certificazione Haccp: “Sono corsi molto costosi, ma hanno voluto aggiungerli agli altri perché gli enti pubblici li richiedono anche per i lavori socialmente utili. E perché così le cooperative avrebbero potuto provare a inserire i richiedenti asilo presso ditte esterne”.
A Bene Vagienna, ad esempio, c’era un corso di elicicoltura che si era provato a replicare, senza successo, anche a Pietra Ligure. A Levaldigi, in un ex hotel con ristorante, era stata messa in piedi una scuola di cucina, oltre a corsi di informatica, italiano e sicurezza. “Era un bellissimo posto, sembrava un albergo a cinque stelle” ricorda un’addetta alle pulizie, che i gestori della struttura avevano chiamato anche per impartire nozioni di base sull’igiene personale agli ospiti: “La cooperativa li forniva di tutto: abbigliamento, cibo, detersivi, non faceva mancare nulla”.