Il video che ha “chiuso” un processo, a carico di un detenuto cileno del carcere di Saluzzo, ne ha fatto aprire un altro contro la guardia penitenziaria che aveva firmato la relazione di servizio su di lui. I fatti, risalenti al novembre del 2018, si erano svolti tra le mura del carcere di Saluzzo. Una serie di tafferugli, dopo una colluttazione tra detenuti: il 39enne poi accusato di resistenza a pubblico ufficiale era estraneo a tutto questo, ma era stato comunque incriminato per il comportamento tenuto in seguito.
Gli agenti lo accusavano di aver brandito un coltello, urlando minacce e costringendo gli addetti alla sorveglianza ad occuparsi di lui per interi minuti, anziché della rissa in corso. Lui era appena uscito dalla doccia, indossava un accappatoio e si era limitato a protestare perché gli agenti volevano rinchiudere in cella tutti i carcerati: “Non è possibile che ogni volta che succede un casino dobbiamo andarci di mezzo noi” è quanto sostiene di aver detto ai poliziotti, senza aggiungere minacce né improperi. Uno di loro, afferma, gli avrebbe anche procurato una lesione al braccio chiudendo il blindo della sua cella.
Il filmato di una telecamera posta in corridoio, proprio di fronte, avrebbe poi chiarito l’esatta dinamica dei fatti. Scagionando il detenuto e inguaiando due degli agenti, da lui denunciati per calunnia dopo l’assoluzione e ritrovatisi da testimoni a imputati. Uno dei due ha optato per il rito abbreviato, l’altro, S.B., ha scelto il dibattimento. Entrambi sono stati assolti a loro volta: “Non era mia intenzione colpevolizzare il detenuto per qualcosa che non aveva fatto, ho cercato solo di esporre i fatti” ha spiegato S.B., ammettendo che tra le mura del “Morandi” quello “era un periodo difficile per tutti, la convivenza era difficile sia per loro che per chi lavorava”. Il 39enne, secondo la sua versione, si trovava davanti alla cella nel momento in cui era scattato l’allarme generale: “Ricordo che un collega l’ha invitato a rientrare e ha chiuso il cancello. Una volta dentro, ha iniziato a innervosirsi”. Di qui la decisione di chiudere anche il blindo, cioè la “finestrella” sulla porta blindata: “Non è stato facile, perché aveva messo alcuni stracci sopra per evitare la chiusura. Io ho chiuso lo spioncino per scongiurare il lancio di oggetti: possono tirare di tutto, dall’olio caldo al fornellino acceso, bastoni, pentole piene”. A quel punto, ha affermato, un collega avrebbe effettuato “un gesto veloce, come ad afferrare qualcosa”. Ma cosa? “Ho dedotto che fosse una lama. Ma lui non mi ha detto se fosse successo in quel momento o dopo, non avevamo avuto tempo di parlarci”.
Per il pubblico ministero Raffaele Delpui, le contraddizioni nella testimonianza non erano tali da configurare una calunnia da parte della guardia: “Le deposizioni sono concordi, perlomeno quelle degli agenti, nel descrivere una situazione caotica. Nemmeno dal filmato si può asserire o escludere, al di là di ogni ragionevole dubbio, la presenza del coltello, a prescindere dalle frasi minatorie che sono state proferite”. E nemmeno, ha aggiunto il rappresentante della Procura, c’è motivo di credere che l’agente nutrisse una particolare acredine verso quel recluso. Di parere opposto l’avvocato Edoardo Clementi, legale del cileno, che si è costituito parte civile: “L’agente, sentito in tribunale come testimone, ha rincarato la dose, rilasciando dichiarazioni false che sono state smentite dal filmato”. In particolare aveva dichiarato che la lametta “sarebbe stata tolta dal collega, circostanza che non compare nel video e che viene smentita dallo stesso collega indicato. Senza il filmato, molto probabilmente il detenuto sarebbe stato condannato”.
“Non c’è la calunnia e nemmeno il reato di falsa testimonianza” ha obiettato l’avvocato Sofia Ammodio, difensore del poliziotto: questo perché “la resistenza è contestata non prima dell’ingresso in cella ma dopo, quando il detenuto ha iniziato a urlare e minacciare tutti e in seguito ha estratto una lama”. L’autore della relazione di servizio, precisa, l’avrebbe scritta solo due settimane dopo, “a fronte di una situazione penosa in cui c’erano continue risse in sezione”. All’errore in buona fede ha creduto anche il giudice Elisabetta Meinardi, assolvendo l’agente penitenziario con formula piena.