Parla più volte al passato, il procuratore Carla Longo, descrivendo le tappe di un fenomeno sociale che nel giro di un decennio ha stravolto un territorio. Perché il “processo Momo”, il primo processo per caporalato in provincia di Cuneo, non è solo un elenco di accuse infarcite di termini giuridici, di pagine di verbali, di intercettazioni trascritte e faldoni di contabilità.
È la storia recente di una città, Saluzzo, ritrovatasi in pochi anni sulla linea di faglia tra le contraddizioni più esplosive: degrado e benessere, eccellenze agroalimentari e manodopera a prezzo stracciato. La “Rosarno del nord”, si è sentito dire - con enfasi eccessiva - per descrivere il tumultuoso afflusso di immigrati stagionali nelle terre del Marchesato. Si parla di “caporalato grigio”, quella forma di organizzazione in cui “viene data un’apparenza di legalità ai rapporti di lavoro, ma è solo un’apparenza che difetta o contrasta con la natura delle cose e che può prescindere dalla sussistenza di condotte violente o minatorie”. La violenza, ammesso che ci sia, è negli squilibri di potere tra bracciante, caporale e datore di lavoro.
Per questa vicenda le richieste di pena sono pesanti: sei anni e otto mesi di carcere più 23mila euro di multa per Moumouni Tassembedo detto Momo, il presunto caporale. Cinque anni e 20mila euro per Diego Gastaldi e la madre Marilena Bongiasca, responsabili di un’azienda agricola a Lagnasco. Altri tre anni e quattro mesi, con 12800 euro di multa, per il padre di Gastaldi, Graziano. Per Andrea Depetris e la moglie Monica Coalova, titolari di un allevamento di pollame e carni bianche a Barge, si chiedono cinque anni di detenzione e 11mila euro di sanzione. Tre anni e quattro mesi con 7500 euro di multa, infine, per la madre di Depetris, Agnese Peiretti, coinvolta nella gestione della ditta. A tutto ciò si aggiungono le richieste delle parti civili, comprese la Cgil, la Flai e l’associazione Diritti e lavoro.
È una sopraffazione, afferma l’accusa, di cui le presunte vittime spesso non erano nemmeno coscienti, ignorando tutto del Paese in cui si trovavano a cominciare dalla lingua: “Vittime di una sorta di sindrome di Stoccolma, - sostiene il pm - perché riconoscono al caporale e al datore di lavoro un ruolo di aiuto sociale”. A nessuno quindi sarebbe sembrato strano pagare ogni mese il reclutatore che gli aveva trovato l’impiego, restituire in contanti una parte dello stipendio ricevuto tramite bonifico, o ancora sborsare di tasca propria per ottenere il modulo del CUD. “Diritti trasformati in concessioni” secondo il procuratore Longo, che ha ripercorso le tappe di un’inchiesta nata nell’agosto del 2018 dalla confidenza di un africano alla Digos. Al centro delle indagini la figura di Moumouni Tassembedo detto Momo, classe 1988, arrivato in Italia nel 2007. Uno che si era fatto strada raccogliendo pomodori a Rosarno e dormendo in stazione a Saluzzo, fino a diventare - secondo gli inquirenti - il punto di raccordo tra domanda e offerta di manodopera nel territorio saluzzese.
Grazie soprattutto alle sue abilità linguistiche, ma non solo, questa singolare figura di “spicciafaccende” entra in contatto con due famiglie di imprenditori, i Gastaldi e i Depetris, titolari rispettivamente di un’impresa agricola a Lagnasco e di un allevamento collegato alla cooperativa Monviso a Barge: “La cosa inquietante - afferma la rappresentante della Procura - è che Momo, lungi dal proporsi, viene costantemente cercato dai Depetris e dai Gastaldi per risolvere qualsivoglia tipo di problemi, compresi quelli burocratici: interloquisce non come un dipendente qualsiasi ma come un socio, come se fosse alla pari. È indice del fatto che Tassembedo aveva in entrambe le ditte il potere di decidere chi lavorava e chi no”. A conferma di questo si cita la telefonata in cui il reclutatore dice alla segretaria di Gastaldi di fissare un appuntamento con il capo, perché bisogna licenziare uno dei braccianti: “Dì a Diego che è quel ragazzo che è andato a Milano due o tre settimane, dal dottore. È uno che devo levarmi dai piedi”.
Diego Gastaldi è colui che telefona a Momo il giorno in cui l’azienda subisce il primo controllo ispettivo, a settembre. Vuole sapere cosa hanno risposto i dipendenti riguardo alla retribuzione oraria, dato che Tassembedo fa anche da interprete: “Voi continuate a dire che non capite la lingua, perché se non capite la lingua mi chiamano” lo si sente dire in un’altra telefonata quello stesso giorno, parlando con uno degli africani. Emerge dalle testimonianze una disparità di trattamento: “Tutti gli stagionali sentiti affermano di aver coperto molte più ore di quelle conteggiate: in parecchie buste paga si indicava una media di sette giornate lavorative al mese e che questa fosse una condizione contrattuale dei Gastaldi lo conferma Tassembedo. Questo aspetto riguardava solo gli africani e non gli altri, italiani o stranieri”.
Gli elementi più consistenti per l’accusa vengono acquisiti dopo la perquisizione a carico di Momo, nel gennaio 2019. In casa sua si ritrovano numerosi contratti di lavoro riferiti a terze persone, bigliettini con i nominativi dei braccianti impiegati dai Gastaldi e i relativi giorni da retribuire, domande di disoccupazione. Sul cellulare dell’indagato si scoprono i contatti con Andrea Depetris e la moglie Monica Coalova: nella chat denominata “La banda dei pennuti” ci sono gli scambi di informazioni su chi reclutare. “Si capisce - dice il pm - che Tassembedo è una sorta di ‘pronto soccorso’. Recluta braccianti che per la ditta Depetris sono meri numeri, interscambiabili tra di loro e pagati in nero da Tassembedo. Qui il caporalato è più nero che grigio, con lavoratori mai assunti e l’abuso dei ‘periodi di prova’ per camuffare gli illeciti”. C’è anche chi lavora in entrambe le ditte, di giorno tra i filari a Lagnasco e di notte a caricare polli a Barge. Un doppio impiego con turni massacranti di cui gli imprenditori affermano di non essere mai venuti a conoscenza, finché un incidente stradale non aveva coinvolto lo stesso Momo: “Non è vero - replica il procuratore - perché Depetris parla al telefono di quel che succede a Lagnasco. Né lui né i Gastaldi fecero nessuna verifica, non gli interessava”.
Tra le varie contestazioni, quella relativa alle condizioni della cascina in cui i Gastaldi alloggiavano gli immigrati. Si pagava anche per quello, ricorda l’accusa, senza però che la cosa venisse disciplinata per contratto. Così come si pagava per avere una residenza fittizia da Momo, necessaria per il permesso di soggiorno: “Stare in cascina era una condizione per l’ottenimento del lavoro. C’era stato il PAS, l’occupazione della caserma Filippi e del capannone in via Lattanzi, c’erano numerosi stagionali della frutta in giro per le strade di Saluzzo e un grandissimo malcontento dei cittadini”. Qui la vicenda del processo al caporalato si intreccia alla storia della città. Storia di ieri appena, accantonata dalla pandemia e dai protocolli per l’accoglienza che i comuni portano avanti da due anni. Ma pronta a riaffacciarsi sui marciapiedi e sulle panchine di Saluzzo, perché forse il problema è solo rimandato.