Che il giudizio conclusivo abbia rappresentato un lieto fine oppure no, di certo non si può dire che i sentimenti non abbiano giocato un ruolo importante nel processo tenutosi questa mattina a Cuneo contro S.B., imputato per maltrattamenti e minaccia ai danni della convivente.
La genesi della vicenda, almeno in sede giudiziaria, risale a due anni fa, quando B.R., oggi 58enne e residente a Manta, abbandonò in lacrime il compagno al termine di quella che - all’epoca - descriveva ai Carabinieri come una relazione costellata da ingiurie, minacce e occasionali violenze fisiche dell’uomo. Ultimo episodio, il ceffone ricevuto per aver rimproverato il convivente dopo la rottura di un vaso.
Era stato a quel punto che la donna aveva deciso di dire basta, trasferendosi prima a casa dell’anziana che accudiva in paese e poi a Rifreddo, assieme all’ex marito e ai due figli avuti da quella precedente relazione. Dopo circa nove mesi, però, B.R. ha deciso di dare un’altra opportunità all’uomo che aveva denunciato, e ora i due sono tornati a vivere insieme. Ma la macchina della giustizia, nel frattempo, si era messa in moto.
La convivenza tra i due era iniziata nel 2007 e fin da principio aveva affrontato momenti burrascosi, esasperati dal cattivo rapporto di lui con i figli della donna e dalle difficili condizioni economiche della coppia: lei si mantiene con lavori saltuari, lui percepisce un sussidio di invalidità. Al tempo della denuncia, B.R. aveva raccontato di aver subito per anni le ire del compagno, che ha anche avuto problemi con la giustizia in gioventù (sebbene mai per reati violenti). Pochi giorni prima del famoso ceffone l’uomo l’avrebbe minacciata con un coltello, mentre in un’altra occasione, quando vivevano a Venasca, l’aveva chiusa fuori di casa cambiando addirittura la serratura alla porta.
A confermare il temperamento focoso dell’imputato hanno concorso in aula le testimonianze della datrice di lavoro della donna, la quale dopo averla ospitata in casa della madre si era sentita dire da lui che prima o poi “le avrebbe messo la testa sul collo”, e soprattutto quella del figlio. Quest’ultimo ha fatto presente che in almeno tre o quattro occasioni la mamma gli aveva confidato di aver preso botte dall’attuale convivente e che più in generale egli aveva sempre cercato di frapporsi fra lei e la famiglia di origine, tanto che potevano trascorrere mesi interi senza che i figli avessero la possibilità di vederla.
Tra abusi verbali, schiaffi e comportamenti persecutori, sembrerebbe la classica e assai triste vicenda di violenza domestica. Eppure è stata proprio la querelante, con il suo interrogatorio, a porre le basi per l’assoluzione di S.B.: di fronte al pubblico ministero che la incalzava, invitandola a testimoniare senza reticenze, la donna ha ritrattato praticamente tutto quello che aveva fatto mettere a verbale. Certo, lo schiaffo ci fu, ma solo dopo un suo spintone e una serie di ingiurie reciproche. La minaccia col coltello? Nulla di serio, e poi lui l’aveva già in mano perché stava lavando le stoviglie. Anche tutto il resto, ammette ora, sarebbe il frutto di qualche dichiarazione improvvida, in un momento di forte stress.
Al termine del dibattimento, l’accusa non ha potuto fare altro che prendere atto di come la querelante abbia smentito tutta la precedente versione, chiedendo l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”. Tanto più che nessuno tra i testimoni poteva dire di aver mai assistito a un episodio di violenza.
Resta da capire se il verdetto sia stato l’esito inevitabile del tentativo di una donna di salvare l’uomo che ancora ama o crede di amare, a dispetto di tutto, o se davvero le accuse fossero frutto di risentimento ed esasperazione. La verità processuale è stata scritta, su quella fattuale solo i diretti interessati - forse - possono essere buoni giudici.