C’era chi raccoglieva la frutta anche per dodici ore al giorno, poi dopo qualche ora di riposo ripartiva a lavorare da mezzanotte fino alle tre o le quattro in un’azienda di pollami. Scene da romanzo dickensiano ma molto più vicine a noi nel tempo e nello spazio, almeno secondo la ricostruzione accusatoria.
Il processo ‘Momo’ si è aperto davanti al tribunale di Cuneo con l’audizione del maresciallo capo Dario Scaccia. Il carabiniere, comandante del Nucleo ispettorato del lavoro, ha ricostruito i fili dell’indagine che per la prima volta nella Granda ha portato
sette persone alla sbarra con l’accusa di caporalato: al centro dell’inchiesta che da lui ha preso il nome c’è Moumouni Tassembedo detto Momo, che secondo gli inquirenti avrebbe fatto da tramite fra i lavoratori sfruttati e alcune aziende agricole della zona. Devono rispondere delle stesse accuse due famiglie di imprenditori agricoli: una di Lagnasco, costituita da Diego Gastaldi con il padre Graziano e la madre Marilena Bongiasca, e una di Barge, formata da Andrea Depetris con la madre Agnese Peiretti e la moglie Monica Coalova, attivi in una ditta di polli e carni bianche collegata alla cooperativa Monviso.
A mettere in allerta gli inquirenti, nell’agosto 2018, era stato un africano ospite del PAS di Saluzzo. Momo, cittadino del Burkina Faso nato nel 1988, era arrivato in Italia nel 2007 e dal 2011 aveva abitato in provincia di Cuneo, prima a Manta e poi a Martiniana Po e Verzuolo. Formalmente si trattava di un semplice bracciante giornaliero assunto presso l’azienda di Gastaldi a Lagnasco e di Depetris a Barge, in realtà sarebbe stato lui a fare da “collettore” per gli stranieri in cerca di occupazione nel Saluzzese: “Nella prima fase avevamo interrogato sei lavoratori africani. Tutti confermavano che Momo li aveva messi in contatto con le ditte, dove lavoravano per uno stipendio inferiore rispetto a quanto previsto dai contratti collettivi”.
La paga media si sarebbe attestata sui 5 euro all’ora, a fronte di una busta paga in teoria “regolare”: un lavoratore, ad esempio, riferiva di aver ricevuto circa 1200 euro ma di averne poi restituiti 630 all’impiegata dell’azienda che lo aveva assunto (una registrazione audio del colloquio tra i due è stata prodotta in aula). Le imprese in questo modo potevano anche eludere parte dei contributi dovuti all’Inps senza avvalersi di lavoro nero. A fine settembre il primo sopralluogo a Lagnasco, svolto dall’Arma insieme alla Digos e allo Spresal, aveva confermato i sospetti degli inquirenti: “Tassembedo si avvicinava o interveniva ogni volta che i lavoratori dicevano qualcosa di compromettente per l’azienda, tanto che avevamo dovuto allontanarlo. Da un bracciante venimmo a sapere che gli aveva consigliato di far finta di non conoscere l’italiano, di modo che fossimo costretti a rinunciare ad interrogarlo o a rivolgerci a Momo per fare da interprete”.
Lo stesso Momo era stato identificato in una diversa occasione mentre accompagnava altri immigrati al lavoro prelevandoli dal punto di ritrovo stabilito, il piazzale del Penny Market di Saluzzo. Alcuni di questi erano gli stessi già identificati presso le aziende di Gastaldi (dove sarebbero stati rinvenuti alcuni moduli di dimissioni in bianco, già firmati) e Depetris. Nel gennaio 2019 le ordinanze di custodia cautelare e le prime perquisizioni: nell’abitazione del presunto “caporale” erano spuntati fuori una serie di contratti di lavoro intestati ad altri dipendenti della cooperativa Monviso e bigliettini che riportavano i nomi dei lavoratori, i giorni lavorati e il conto delle ore di ognuno. Elementi investigativi coerenti con i riscontri telefonici: “In una chat di Whatsapp denominata ‘La banda dei pennuti’ Momo scambiava documenti e fotografie sui lavoratori da assumere o da scartare. Appare chiaro come la stessa gestione della manodopera fosse demandata dai Depetris al loro ‘soprastante’”.
Altre irregolarità, oltre all’assunzione in nero di due persone, sarebbero emerse dai successivi controlli: “Siccome l’azienda segnava in busta paga meno giornate di quelle effettivamente svolte dai braccianti, per permettere loro raggiungere l’importo necessario ad ottenere la carta di soggiorno (6mila euro l’anno) si aumentava il dato dei certificati unici: ai lavoratori però veniva chiesto di versare in contanti, per il tramite di Momo, un pagamento di 304 euro in saldo dei costi sostenuti per la certificazione ‘maggiorata’”.
Il processo è stato rinviato per ascoltare altri testimoni dell’accusa.