Aveva sostenuto che i finanzieri di Fossano avessero violato la sua abitazione per condurre un accertamento. Si trattava in realtà di un capannone industriale a Cavallermaggiore, dove la donna, secondo le fiamme gialle, conduceva un’attività di lavanderia abusiva.
Per questo N.D., cittadina russa residente a Fossano, è stata condannata a due anni di reclusione. Il giudice Marco Toscano le ha accordato il beneficio della sospensione della pena, ma ha ritenuto calunniosi i vari esposti con cui la donna aveva mosso accuse nei confronti di un maresciallo della Guardia di Finanza. Quest’ultimo aveva in effetti scavalcato una recinzione per entrare nel capannone, ma senza violare un domicilio: “La signora era fuori dal capannone, - ha spiegato uno dei colleghi del sottoufficiale - appena ci siamo presentati si è chiusa dentro. Dall’esterno sentivamo rumori di macchinari, questo ci ha indotti a credere che li stesse spegnendo”. Dopo pochi secondi, il maresciallo era uscito insieme a N.D. e lei si era convinta ad aprire il cancello: “Nel corso del controllo né N.D. né il cognato, giunto in seguito, hanno sostenuto che quel capannone fosse un domicilio privato”.
Il punto è dirimente, secondo il pubblico ministero Lucietta Gai: “In tutto il corso dell’attività nessuno ha mai evidenziato che si trattasse di una casa e nessuno ha mai chiesto agli operanti di allontanarsi, o contestato che quello fosse un luogo di privata dimora”. Solo in seguito emergerà l’accusa rivolta al finanziere: “Sorge il dubbio - ha osservato il pm - che la querela sia stata ideata come elemento per screditare in qualche misura la figura del soggetto che aveva condotto l’accertamento”. Ma “il limite del diritto di difesa è dato dal fatto di non travolgere altre persone con la propria difesa: non si può accusare una persona, un pubblico ufficiale in particolare, di un reato gravissimo in relazione alla funzione”.
L’avvocato Laura Mana, difensore dell’imputata, ha sottolineato che nel capannone “c’era una parte con cucina e bagno e dalle testimonianze pare ci fosse anche un altro bagno”. Un “contesto promiscuo familiare-lavorativo” insomma, se non proprio un domicilio: “L’esposto è stato presentato perché si riteneva di esercitare un diritto, sottolineando lo scavalcamento della recinzione da parte degli operanti. Da una persona non a conoscenza del diritto poteva essere interpretato come un atto ‘aggressivo’”. In ogni caso, ha aggiunto il legale, a scagionare la donna russa sarebbe proprio la natura di quell’atto, costruito in un italiano definito “aulico”: “Sappiamo che la signora è di madrelingua russa ed è pacifico che le memorie da lei sottoscritte non siano state redatte da lei”.
Per lo stesso episodio il cognato della donna, proprietario dell’immobile, era stato indagato a sua volta. Il pm aveva domandato la trasmissione degli atti in Procura per l’ipotesi di falsa testimonianza nei confronti dell’uomo e della sorella dell’imputata.