Non usa mezzi termini il sostituto procuratore Pier Attilio Stea per stigmatizzare il comportamento dell’ex responsabile del CAS di Racconigi, chiedendo una condanna a un anno, cinque mesi e dieci giorni per caporalato: secondo il pm, infatti, è “un caso che porta in evidenza l’ipocrisia che sta dietro il mondo dell’accoglienza ai richiedenti asilo”.
Matteo Monge, in veste di dipendente della cooperativa Liberitutti di Torino, ha gestito per tre anni il centro di accoglienza straordinario dell’ex hotel Carlo Alberto. Ora è chiamato a difendersi dalle accuse di sfruttamento della manodopera, per le quali ha già definito la sua posizione il titolare di un’azienda agricola di Costigliole Saluzzo. L’inchiesta è partita nel 2020, dopo una serie di proteste animate dagli ospiti del centro: l’oggetto del contendere era il vitto servito dalla cooperativa, ma si era presto scoperto che c’erano anche altre ragioni per lamentarsi. Quando gli immigrati avevano iniziato a presentarsi ai carabinieri c’era stato chi aveva tirato in ballo una questione di ore lavorative non pagate: “Portavano statini con le indicazioni delle giornate e delle ore di lavoro prestate presso aziende agricole del territorio. Alcuni li avevano stilati davanti a noi” ha ricordato il maresciallo Silvano Tavella.
I richiedenti asilo viaggiavano da Racconigi verso il Saluzzese alle prime luci dell’alba: lavoravano in media tra le 47 e le 57 ore settimanali, sottolinea il pm, a fronte delle 36 di base previste dal contratto agrario. “È pacifico che ciò avvenisse con pagamenti fuori busta in nero, in aggiunta c’è la richiesta di 5 euro per ciascuno per andare a lavorare” aggiunge il rappresentante dell’accusa. Il tema del trasporto è stato uno dei più dibattuti. A titolo di “rimborso spese di viaggio”, il gestore del CAS chiedeva a ciascun lavoratore la somma di cinque euro al giorno. Un contributo che serviva a pagare il pullmino della cooperativa ma che sarebbe stato versato anche in seguito, “quando il servizio di trasporto dalla cooperativa al posto di lavoro veniva offerto direttamente dal datore di lavoro”. Soldi che secondo l’accusa Monge avrebbe trattenuto per sé, come testimonierebbero gli accertamenti bancari della Finanza: “Non parliamo di grosse cifre, ma sono stati individuati versamenti sistematici sui conti di Monge: ne ha ricavato qualcosa, a costo di chi svolgeva ore di lavoro non pagate e a costo dell’erario”.
“C’era una richiesta di lavoro pressante, quasi assillante, che veniva dai ragazzi. Dall’altra parte c’era una richiesta che arrivava da più datori di lavoro all’esterno”: così ribatte l’imputato, respingendo ogni accusa. Da parte della cooperativa, aggiunge, veniva l’impegno a garantire tutti i servizi essenziali “cercando anche di dare un senso a una parola di cui tutti si riempiono la bocca, ma che pochi riescono a vivere: l’integrazione sul territorio”. Di qui le molte iniziative con la cittadinanza e il tentativo di mediare nella ricerca di lavoro: “Non ho mai preso accordi con i datori di lavoro sulle buste paga: noi fornivamo la documentazione affinché i ragazzi potessero essere assunti regolarmente, ma non gestivamo le buste paga”.
E il famoso contributo di cinque euro per il trasporto? “È stata una scelta condivisa con l’équipe e la cooperativa di cui io era dipendente, ma anche con i ragazzi che chiedevano di lavorare”. C’era l’esigenza di viaggiare per parecchi chilometri fino al cosiddetto “quadrilatero della frutta” saluzzese. E c’era il precedente drammatico di un incidente mortale, di cui nel gennaio 2017 era rimasto vittima un afghano che si recava a lavorare in bicicletta: “Io portai avanti tutta la pratica per riconsegnare la salma alla famiglia. Questa esigenza ci fece riflettere molto sul tema della sicurezza stradale” ricorda Monge. Perché allora mantenere il “pedaggio” anche quando non era più la cooperativa a sostenere il trasporto? “Era anche quella una scelta condivisa: l’équipe sosteneva che ci fosse un messaggio pedagogico”.
“Monge si è mosso all’interno del perimetro contrattuale, in assolvimento alle mansioni per le quali era stato assunto” sostiene l’avvocato Luisella Cavallo, legale dell’imputato. Nessun caporalato, afferma la difesa, perché non c’era nessuno sfruttamento: chi chiedeva di lavorare veniva aiutato a farlo, chi non voleva non veniva minacciato in alcun modo. È emersa, ribadisce la legale, “la totale estraneità di Monge dalle dinamiche contrattualistiche tra i richiedenti asilo e i datori di lavoro, che erano plurimi: lui si limitava a metterli in contatto”. Il 28 marzo si attende la sentenza del giudice.